Profumata pazienza

dal profilo facebook di fratel Ignazio de Francesco, monaco della Piccola famiglia dell’Annunziata.

Gelido mattino di febbraio a Damasco. Alle spalle del Museo Nazionale m’imbatto in un uomo vecchio e piagato, seduto a terra sul nudo marciapiede, tra le gambe incrociate un sacco di tela grezza pieno di saponette di fabbricazione artigianale. “Ya sabr Ayyub” mi viene da dirgli chinandomi a sceglierne tre: Pazienza di Giobbe! Fin lì ce l’hanno portato, e da lì non se ne andrà da solo, questo è sicuro, ma a parlarci si riceve l’impressione di una personalità forte, padrona di sé, sapiente del vivere. “Jamil huwa al-sabr”, bella è la pazienza, mi risponde sorridendo tra i denti che gli rimangono. Ecco, ho compreso qual è il suo segreto.

Giobbe è una delle figure più ecumeniche della storia culturale del medio oriente antico. Prima di arrivare alle pagine della Bibbia ebraica ha camminato in testi egizi, babilonesi, accadici. Opere che hanno tre o quattro mila anni ma che descrivono il dramma esistenziale del cosiddetto “uomo moderno” con una lucidità e penetrazione impressionanti. Fino al nodo del suicidio: se questa è la vita perché vivere? Il Giobbe biblico è un capolavoro di modernità: non accetta le spiegazioni “tradizionali” del male, lotta con Dio, lo contesta, sopporta la prova della malattia e dell’esclusione, della marginalità, ma fa sentire la propria voce in un grido che chiama direttamente in causa la giustizia di Dio: “Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliva? Se ho peccato, che cosa ti ho fatto? Perché m’hai preso a bersaglio e ti son diventato di peso? Ben presto giacerò nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò!”.

Nell’islam Giobbe è il simbolo di una delle virtù più amate e predicate: la pazienza. Il mio professore di Shari’a ad Amman mi spiega che è di due tipi: la pazienza nel fare il bene e quella nel sopportare il male. Alzarsi nel cuore della notte per pregare, ad esempio, può essere una mashaqqa, una fatica che richiede pazienza e sopportazione. La stessa pazienza, che in arabo è sabr, serve per trattenere una parola cattiva, per non approfittare dell’occasione d’oro di un guadagno disonesto, per portare il peso di una malattia, della perdita di una persona cara.

Il Giobbe musulmano non ha la carica polemica, al limite della bestemmia, del Giobbe biblico. La sua pazienza è a tutto tondo. Una delle tradizioni circolanti su lui che più mi impressionano (e che sollevano tanti dibattiti: un Profeta non può essere trattato in questo modo!) è quella che afferma che Dio l’aveva messo interamente in potere dei vermi, tranne due cose: la lingua e il cuore. Giobbe pensa sempre bene di Dio e sempre lo loda, poiché sa che tutto viene da lui, il bene come il male. Ogni cosa è una prova mandata da Dio. La povertà ma anche la ricchezza. La malattia ma anche la salute. Gratitudine o ribellione possono essere suscitate tanto dalla fortuna quanto dalla sventura. Questo è il messaggio del Giobbe musulmano e la chiave teologica della virtù della pazienza islamica. Una grande virtù dunque, fonte di grande stabilità interiore ed esteriore, come posso ammirare nel venditore di saponette. Ma non priva di qualche ombra, o almeno di qualche nodo problematico.

I fautori del più stretto predestinazionismo offrono un esempio chiaro: in qual modo si può dire che “un sasso vola”? Forse che dispone di ali, cuore, testa, muscoli e nervi? Diciamo “il sasso vola”, sì, ma solo perché dietro di lui c’è una mano che lo ha lanciato. Esso non è altro che il “ricettacolo dell’azione di Dio”. Quel sasso è l’uomo, e gli atti dei quali egli si ritiene autore non sono che le operazioni di Dio in lui. Punto. Una posizione teologica estrema, alla quale la “corrente media” ha cercato di correggere la punta, perché mette in crisi tutto il sistema della giustizia divina, premio e retribuzione: perché mai Dio mi punisce se non sono altro che un burattino nelle sue mani? Oppure, per dirla in modo più aderente alle fonti islamiche, una foglietta appesa a un ramo che Egli sbatacchia fronte e retro come vuole? Pur correggendo (ma forse solo formalmente) le formulazioni estreme del predestinazionismo rimane che la bella virtù della pazienza è il tratto esistenziale di chi si sottomette di tutto cuore agli imperscrutabili disegni di Dio. È parte di questa sottomissione teologica anche un versante politico, che riconosce ad esempio nelle differenze di classe un segno della “disposizione divina”. La “lotta di classe”, nel senso tecnico del termine, può quindi essere accusata di essere una forma di ribellione all’Entità suprema. Predicare la virtù religiosa della pazienza può quindi funzionare come leva potente di pace sociale e far ingoiare grandi ingiustizie, in nome della religione.

Dal sacco di tela raccolgo tre saponette e allungo 50 lire siriane all’uomo piagato che le vende, nel gelo di quel mattino. “Ma sono proprio buone?” “Profumo di paradiso!” “E tu che ne sai del paradiso?”. La figura incurvata a terra ha un fremito, si erge, si accende, s’illumina, trasforma il marciapiede in un podio. Inizia a parlarmi del paradiso con una tale eloquenza, trasporto, dolcezza che mi lascia sbalordito. Sbalordito di quanta energia si celi in una persona all’apparenza così ridotta a nulla. Mi allontano da lui sentendomi avvolto da un profumo che, ripensando tante volte a quell’episodio lontano, non ho mai capito se provenisse dalle saponette che stringevo in mano.

Ignazio de Francesco

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