«Felicità: tra illusione e realtà». Un articolo di Tudor Petcu

Una delle domande fondamentali che l’uomo, in quanto entità razionale e riflessiva, si pone fin dalle prime fasi della sua esistenza è: “Possiamo davvero essere felici?”. O, più semplicemente: “Cos’è la felicità?”.

Ovviamente, lo spettro delle definizioni riguardanti la felicità è estremamente ampio, poiché l’intera tradizione filosofica occidentale si è interessata alla possibile validità dell’esistenza della felicità come fattore determinante della vita umana.

Quello che è certo è che la felicità stessa, al di là dei significati e delle significazioni che le vengono attribuiti, rappresenta probabilmente il paradigma più impegnativo che i nostri bisogni razionali possano affrontare nella dimensione sensibile della mondanità.

Dire “Sono felice” implica o l’assunzione logica e deduttiva di ovvie conseguenze basate sulle esperienze vissute che hanno portato a tale risultato, oppure l’integrazione del proprio spettro esistenziale nell’orizzonte seducente dell’illusione come arma principale contro le delusioni causate dalle tensioni del mondo circostante.

In altre parole, non so se sono felice, ma so che non voglio essere infelice perché non voglio diventare vittima della sofferenza causata dalle forze della superficialità contemporanea. Questo è generalmente il motto dell’uomo per il quale la visibilità della tragica realtà deve essere rimossa attraverso la propria forza di autocondizionamento e autodeterminazione, in modo tale che la capacità di mentire bellissimamente a se stessi diventi l’arte più esaltante di organizzare e strutturare la propria esistenza.

Ovviamente, non riconoscere la mia malattia interiore per trovare un anello di salvezza nel mare furioso e turbolento della disillusione può anche rappresentare una situazione affettiva positiva nei confronti della propria esistenza, nel senso che invece di scegliere il caos dell’oscurità, preferisco scegliere la confortante illusione della luce armoniosamente diretta dalla speranza della felicità.

Pertanto, una variante esistenziale sarebbe il divenire dell’Essere nell’Illusione, che segnerebbe un’altra tragedia nelle nostre profondità ontologiche, ovvero: il distanziarci da noi stessi.

Non è meglio prendere possesso della realtà della nostra sofferenza e accettare che la sofferenza possa a un certo punto diventare la nostra guida per Felicità? In questo senso, dovremmo forse riflettere più responsabilmente sulle considerazioni del teologo francese Jean Narbert sul rapporto tra sofferenza e felicità: “Gesù, attraverso la sua sofferenza, ha portato all’umanità la più grande felicità : la salvezza. Così, noi, attraverso la nostra sofferenza, possiamo raggiungere la felicità perché essa ci ricorda sempre l’esistenza della felicità”.

Si è spesso detto che la sofferenza è il luogo in cui la bellezza è maggiormente capace di manifestarsi, ma chi accetterebbe il paradosso della sofferenza per acquisire la felicità? Ovviamente, la sofferenza è l’antitesi della felicità e confrontarsi con la sofferenza ci porta a comprendere meglio la felicità e, non ultimo, ad apprezzarla di più. Ma quanto forte deve essere la nostra voce interiore per abbracciare la sofferenza, esultarne per migliorare la nostra natura? Qui ci troviamo di fronte alla sfida etica del dialogo interiore e sono quindi costretto a tornare a quanto accennato sopra: non accettare la concretezza della sofferenza a favore dell’illusione di felicità porta inevitabilmente al nostro allontanamento da noi stessi. E se il sé diventa per noi la più grande incognita, la sofferenza prenderà ancora di più il sopravvento sulla nostra esistenza perché non saremo più in grado di rispondere alla domanda “Chi sono io?”. Sulla base di questo ragionamento, si può comprendere benissimo che vivere consapevolmente e presumibilmente nella nostra sofferenza può rappresentare una felicità molto maggiore per il nostro Io che vagare lungo i sentieri insospettati e tortuosi dell’illusione di felicità.

D’altra parte, la felicità può anche essere percepita come una scelta morale. In altre parole, scelgo di essere felice attraverso la mia condotta razionale e morale, poiché sono perfettamente consapevole del fatto che nessuno e niente è responsabile della mia felicità.

Se per Aristotele la felicità è l’attività razionale di contemplare la realtà, allora la nostra ragione, alla luce degli impegni etici e morali di cui è capace, garantirà il necessario grado di coerenza della felicità che perseguiamo per tutta la vita. Quanto più sono razionale nelle mie decisioni, tanto più etico agirò in ogni impresa, e così la mia esistenza sarà definita dall’indistruttibile autenticità della moralità, che mi renderà felice perché non sarò come il resto della città.

Ma cosa succederebbe se, d’altra parte, la felicità fosse ciò che il poeta italiano Cesare Pavese descrisse come “il coraggio di amare incondizionatamente nel mondo oscuro dell’odio”? Se così fosse, allora l’uomo stesso si perfezionerà alla luce della legge del dono di sé, che rappresenterà sempre il passo verso un’orbita superiore della propria umanità.

È più che chiaro a tutti che la domanda “Cos’è la felicità?” può ricevere un’infinità di risposte, ma la conclusione sarebbe una sola: quanto siamo ansiosi di conoscere noi stessi, di accettarci per come siamo per poi percorrere la via della felicità?

Infatti, il più delle volte l’infelicità umana deriva dalla nostra incapacità di confrontarci con il sé che, preso separatamente, è come un’entità che brama la nostra attenzione, ma il grosso problema è che rifiutiamo la nostra compenetrazione con le profondità del cuore, preferendo sempre scegliere le apparenze che trafiggono il nostro essere e ingannano i nostri sensi.

Al di là di quanto si potrebbe dire sulla felicità, forse dovremmo considerare l’opzione del dialogo interiore come un modo per fare amicizia con il sé che ci integrerà nella felicità del nostro paradigma esistenziale perché col tempo saremo in grado di dare sempre più risposte alla domanda “Chi sono io?”. Altrimenti, la felicità rappresenterà sempre una realtà inaccessibile, come il frutto proibito che avvelenerà la nostra anima. In altre parole, l’illusione di felicità condurrà automaticamente al fallimento del proprio io, cioè alla disintegrazione dalla geografia e dal rilievo del nostro mondo interiore.

Tudor Petcu

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