Il fabbricante di tende spirituali

Don Stefano Bazzucchi, che ha cominciato a inviare a “La Bottega di Nazareth” alcuni testi, ci ha mandato questo bell’articolo, dove, nella prima parte, tratteggia con efficacia il cammino delle prime tre encicliche di papa Giovanni Paolo II, con tre passi fondanti del suo magistero: l’uomo, la misericordia di Dio e il lavoro. Nella seconda esemplifica attraverso Paolo e la sua professione di fabbricante di tende come il lavoro può illuminare la vicenda dei grandi uomini della fede raccontati dalla Bibbia e la loro attività evangelizzatrice. Particolarmente bella è la descrizione della bottega di Paolo come luogo di conversazione, di condivisione e di scambio di idee. Così simile a come abbiamo pensato “La Bottega di Nazareth”.

Il santo Papa Giovanni Paolo II, uomo di cultura profondissima, uomo del lavoro, venuto da oltre la cortina di ferro, dove il regime comunista lentamente anno dopo anno con il suo totalitarismo anti-umano stava svuotando le coscienze delle persone, gridò al mondo la bellezza dell’uomo, di tutto l’uomo e l’opera meravigliosa, mirabilia Dei, della salvezza operata in Cristo Gesù mandato dal Padre a spezzare i lacci della morte.

Nei primi tre anni del suo pontificato, anni duri, anni di inculturazione personale nel tessuto cattolico occidentale, sia istituzionale che non, ancora molto commistionato con la mondanità della vita umana, e poco attento all’istanza salvifica nascente dal grido dei
poveri, non solo materiali, ma soprattutto di spirito.

Le sue prime tre encicliche furono la stesura perfetta del suo programma di fede, esattamente come in teatro o su un palcoscenico l’occhio di bue, focalizza agli spettatori vicini e lontani, l’essenziale da seguire: l’uomo, la misericordia di Dio e il lavoro.

Prima fra tutte, pietra miliare di tutta la predicazione della Chiesa, di lì a venire, fino ai nostri giorni, fu la Redemptor hominis, del 4 marzo 1979, neanche 4 mesi dopo la sua elezione: Gesù è il Redentore dell’uomo, di tutto l’uomo, dell’uomo integrale. Badate bene, cambia totalmente la prospettiva, in quanto il nostro Salvatore ci viene presentato come un missionario con un preciso mandato. Non è più il generico “Salvator mundi”, eccellente, onnipotente, a cui tutte le genti si devono inchinare, ma un missionario del Padre venuto a salvare l’uomo, di ogni sorta, di ogni razza, di ogni pensiero, di ogni religione o ateismo, perché l’uomo ha bisogno di salvezza.

Con ciò, dettò le basi per la seconda enciclica quella sul cuore di Dio: Dives in misericordia del 30 novembre 1980: un Dio ricco di misericordia che ci guarda e ci ama, ci segue, ci sprona, fa il tifo per noi. Quanto rapidamente queste parole ci conducono con la mente alle tante omelie di Papa Francesco in cui ci presenta un Dio vicino, quasi il vicino della porta accanto: con ciò capiamo bene dove sono state gettate le basi per la predicazione esistenzialista ed efficace che oggi la Chiesa, anche per opera di tanti bravi sacerdoti, porta avanti nel mondo.

Ed infine, l’enciclica sul lavoro, la più sofferta, quella che fu rimandata per l’attentato del 13 maggio 1981. Se la via della Chiesa è l’uomo, nella sua via essa incontra necessariamente il suo lavoro. E, verso questa sua intima dimensione la Chiesa, nella
persona del papa, instancabile lavoratore nelle miniere polacche, sente il bisogno di dare una catechesi magistrale stupenda, profondamente cristiana, non solo nel suo contenuto ma anche nella accoglienza di istanze dimenticate.

Da troppo tempo infatti il mondo del lavoro, ancora molto radicato ad uno stile fordista delle grandi masse – il terziario, il settore dei servizi, oggi preponderante, era solo agli inizi nel 1981- era relegato ad una dottrina ermeneutica singolarmente appannaggio dei sindacati e delle estremizzazioni sinistroidi, che avevano fatto dello sforzo umano il motivo del riscatto contro il padrone, il quale giorno dopo giorno, sfruttando il prezioso operato dei suoi operai, diveniva il nemico numero uno da perseguire, ma siccome inarrivabile, egli era solo la punta dell’iceberg di una società in cui l’unica via era la lotta di classe, la voce del dissenso: impersonare il signor NO!

Non a caso furono anni glaciali per le istituzioni, “anni di piombo”, così passeranno alla storia, anni di morti, di attacchi terroristici, anni di Brigate Rosse, di assalti all’autorità costituita, anni di compromessi politici, tra tutte le parti, tra i democratici cristiani e tutto ciò che fosse anticomunista, ma anche compromessi rossi dei vertici del partito del popolo con la Russia di plastica, che allora sembrava l’unico baluardo contro il capitalismo schiavista.

Il Papa, venuto da lontano, come lui stesso si definì quella sera del 18 ottobre 1978, in occasione della sua elezione, individuò in questo marasma esplosivo come unica via di catechizzazione nel riportare il lavoro umano, l’espressione più alta dell’attività dell’uomo, nell’alveo dell’annuncio cristiano, sottolineando prepotentemente come il lavoro sia una delle vie maestre per diventare come Cristo Gesù.

È noto che egli presenta in questa sua enciclica, Laborem exercens, tre canali, tre app diremmo ai nostri giorni, che attivate ci rendono come Gesù, ci conformano a Lui, proprio perché sono le vie che Gesù per primo ha inaugurato. Questa fu l’innovazione catechetica stupenda di Giovanni Paolo II. Presentare in ogni ambito il Redentore come prototipo, come impianto pilota: la fede non è più un dettame morale, ma una sequela, un seguire il cammino aperto da Gesù, così nel lavoro, nelle relazioni, nella sofferenza, nella morte e così saremo uniti a lui nella medesima Resurrezione per sempre.

Vorrei soffermarmi, un poco, giusto alcune righe, su come questa metodologia interpretativa si possa applicare anche ai grandi uomini presentati dalla Bibbia, con lo scopo di farceli compagni di viaggio ancora di più, e presentarli come fari sul nostro cammino diradando le ombre sul senso della nostra vita che di fatto si conforma alla nostra attività lavorativa, spesso, purtroppo vissuta come un peso o come un ineludibile passaggio obbligatorio.

San Paolo, come riportano alcuni passi delle sue lettere e degli Atti degli apostoli, a cui rimando per una approfondita conoscenza, fu un instancabile lavoratore. Ho preso il titolo di questo articolo esattamente dal termine che Luca usa negli Atti al capitolo 18,3:

Essi (Aquila e Priscilla) erano fabbricanti di tende.

E Paolo come loro. Su questo e sul senso catechetico del mestiere di Paolo molto è stato scritto.

Lo scopo di questo breve studio vuole invece focalizzare su come realmente il lavoro materiale dell’apostolo delle genti abbia formato in lui una struttura di pensiero tale che si è riversato nella sua predicazione: o meglio, il suo essere fabbricante di tende ha conformato il suo annuncio all’opera salvifica del nostro Redentore.

San Paolo, insomma, trova nel suo lavoro manuale, faticoso, e complicato per molti aspetti, l’illuminazione per presentare al mondo la novità del Cristo Gesù risorto dai morti. Proprio lì, mentre fabbricava le tende con i tessuti più disparati, Paolo, forse senza rendersene conto, riceve, dal suo lavoro, la forma mentale per annunciare il Cristo Gesù e riportare Dio a viaggiare nella “tenda con il suo popolo” e non più nel tempio stabile di
Gerusalemme, dove l’uomo, nella persona dei sacerdoti e dei leviti, aveva preteso di ingabbiare Dio dentro delle mura, quasi facendosi un Dio alla propria portata, novello vitello d’oro, un idolo.

Ma andiamo per gradi. In uno dei suoi trattati politici, Plutarco, criticando lo stile di vita distaccata dalle istituzioni che alcuni filosofi propugnavano per non cadere in compromessi subdoli, suggerisce che l’unica alternativa per l’uomo, dalla mente aperta e desideroso di praticare la filosofia, è fare l’artigiano, per esempio, il calzolaio, in modo da
avere la possibilità di conversare nella bottega, come Simone il calzolaio aveva fatto con Socrate. Questo suggerimento, della bottega come luogo di incontro per la condivisione e lo scambio di idee, ci porta direttamente con la mente alla possibilità, sicuramente utilizzata, che Paolo si sia servito del suo lavoro manuale, non solo per il proprio sostentamento, ma anche per annunciare all’uomo del suo tempo, non troppo dedito a ragionamenti filosofici, ma pratico e invischiato nelle vicende del secolo, come scegliere e comprare una tenda, quel Gesù che lo ha incontrato e lo ha innamorato nell’intimo.

Il lavoro di Paolo è stato considerato una eredità della sua tradizione ebraica, come un retaggio della sua militanza nella setta dei farisei, realizzando quell’ideale rabbinico che cercava di associare lo studio della Torah con la pratica di un mestiere.

La possibilità di far conversazioni in bottega è intuibile da un brano delle sue lettere: il sommario dettagliato dell’attività missionaria dell’Apostolo nella città di Tessalonica, al versetto 9 ci fa capire che il lavoro e l’attività missionaria fossero espletati insieme:

Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorano notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio”.

1Ts 2,9

Per Paolo, il missionario, il pulpito della sinagoga non bastava: egli usciva anche in piazza ed entrava nella sua bottega. Anzi, sicuramente usava questa sua attività di bottega, che permetteva un incontro a tu per tu, come vera e propria fonte di evangelizzazione quando molti, impressionati dalla forza del suo messaggio, venivano a colloquio privato con lui ed egli, continuando il suo lavoro manuale, scavava e seminava profondo il seme dell’eternità del Salvatore Cristo Gesù.

Non solo, ma il suo stesso annuncio diviene, anno dopo anno, più dirompente e avversato dalle istituzioni, in quanto si focalizza sull’opera salvifica dell’uomo, dal di dentro, incarnandosi, assumendo le sue categorie, le gioie, i dolori, la fatica e la sofferenza: Gesù redime tutto l’uomo, come anche sant’Atanasio ci ricorda. Una rivoluzione copernicana, si dirà alcuni anni dopo. Un cambio epocale di tutto l’annuncio. E proprio lui, Paolo, ne è l’artefice. Lui che era figlio di una visione di Dio del tempio, di un Dio che va servito secondo i tanti schemi che gli uomini nel corso dei secoli hanno prodotto, sicuri di pensare quello che Lui pensa. Una pretesa evidentemente eccessiva, ma che funzionava, e che aveva reso il popolo succube di un Dio, quasi ignoto, non più vicino al suo popolo, non più Padre, ma padrone.

Molto ci aiuta a comprendere questo aspetto, il passo della Samaritana nel capitolo 4 del vangelo di Giovanni, in cui fanno eco fortemente le parole di San Paolo. Rispondendo alla domanda della donna su quale fosse il tempio in cui venerare in maniera retta Dio, per essere da Lui amati e protetti, se il monte Garizim, o il monte Sion, Gesù pronuncia la frase che ha cambiato per sempre la storia delle religioni, e ha spinto la religione cristiana in un nuovo mondo ermeneutico:

In verità ti dico, è giunto il momento ed è questo che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità!

Cioè? Cosa significa questo? Significa molto plasticamente che non c’è più un luogo privilegiato dove Dio risiede, dove pregarlo, perché Dio ha preso dimora dentro di noi. Dio si è fatto uomo. Dio è Gesù: è lui il vero tempio, il tempio del suo corpo, che verrà distrutto e risorgerà per sempre dopo tre giorni aprendo un portale di grazia per tutta l’umanità. La Resurrezione che dà la vita.

Difficile da crederlo, per quanto questo annuncio sia bello e liberante, difficile da attuarlo anche per noi uomini del XXI secolo, così innovativi, così moderni, ma ancora così legati a un luogo, a un tempio: basti notare quell’innato comportamento per cui appena entriamo in chiesa, abbassiamo la voce, se ci sono bambini intimiamo loro di stare buoni, non ci arrabbiamo, non diciamo parolacce, non giudichiamo. Siamo tutti più buoni. Ma anche più finti, mi verrebbe da dire. E questo non è assolutamente quello che Gesù ci ha voluto dire!

San Paolo, mi avvio verso la conclusione, è stato il megafono di questo annuncio: quanto Gesù aveva operato gridandolo tra i farisei e tra gli uomini del Sinedrio, l’Apostolo delle genti lo urla da tutti gli angoli del mondo, liberando l’uomo, soprattutto i credenti ebrei, dalla gabbia moralista di un Dio lontano, impronunciabile e presentando un Dio fatto uomo che torna a vivere con il suo popolo, torna a camminare sotto la tenda esattamente come nei 40 anni nel deserto: Dio in mezzo a noi, l’Emmanuele, come era stato annunciato dall’angelo a Maria.

Dal Dio-con-noi al Dio-in-noi. Stupendo. Da un Dio che è quasi servitore delle mie preghiere e dei miei desideri, da venerare dentro il tempio, da tenere buono come un amuleto, al Dio che cammina nelle mie stesse vie, al Dio che batte il martello sul bancone da lavoro, al Dio che scarica pacchi innumerevoli e sempre in aumento soprattutto per tanti corrieri che in questi mesi di pandemia hanno visto più che triplicare il loro lavoro e lo sforzo richiesto. Un Dio che ha preso la mia forma, che vuole lavorare con me, un Dio che dà senso al mio lavoro, anche ai soprusi e alle ingiustizie che nel lavoro ricevo, un Dio pacificatore, che sana la lotta di classe, facendosi mio compagno, facendosi senso alto della mia vita, proprio lì dove vengo svilito, proprio dove il mio lavoro viene sottopagato. Un Dio-in-noi.

Per questo mentre fabbricava le tende, San Paolo è diventato fabbricante di tende spirituali. Un po’ come la compagnia peschereccia di Pietro che dà pescatori di pesci si trasformò in pescatori di uomini.

don Stefano Bazzucchi

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