Questi versi di Primo Levi sono un piccolo miracolo di verità e pudore.
Non c’è romanticismo artificiale, nessuna idealizzazione: solo due vite intrecciate nel tempo, con la fatica, la tenerezza e le cicatrici che ogni amore maturo porta con sé.
Levi parla alla donna che gli è accanto non come a un simbolo, ma come a una compagna reale — affaticata, impaziente, viva.
Le chiede pazienza, ma non per sottomissione: la chiede come un atto d’amore reciproco, come la sola virtù capace di tenere insieme due anime che hanno attraversato il dolore e continuano a scegliersi ogni giorno.
In fondo, questi versi non sono solo una dedica: sono una confessione d’umanità, un riconoscere che l’amore, per durare, ha bisogno di accettare anche l’imperfezione, la scorza ruvida dell’altro e la propria.
È la poesia di chi ha conosciuto l’abisso e ancora riesce a dire — con dolcezza e disincanto —
“non starei al mondo senza te.”
Abbi pazienza, mia donna affaticata,
Abbi pazienza per le cose del mondo,
Per i tuoi compagni di viaggio, me compreso,
Dal momento che ti sono toccato in sorte.
Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici
Per questo tuo compleanno rotondo.
Abbi pazienza, mia donna impaziente,
Tu macinata, macerata, scorticata,
Che tu stessa ti scortichi un poco ogni giorno
Perché la carne nuda ti faccia più male.
Non è più tempo di vivere soli.
Accetta, per favore, questi 14 versi,
Sono il mio modo ispido di dirti cara,
E che non starei al mondo senza te.