Né invisibili né irrilevanti. Per una lettura evangelica dell’impegno dei cattolici in politica

da Vinonuovo.it, «vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi» (Lc 6,36).

Di recente Giuseppe Savagnone ha riflettuto sull’impegno dei cattolici italiani in politica in uno stimolante articolo apparso su Tuttavia.eu e intitolato I cattolici invisibili. A partire dall’attualità il professore siciliano ha inteso concentrare l’attenzione sull’odierna rilevanza e visibilità dell’opera dei credenti in politica. Le interessanti parole di Savagnone, al modo di una sponda che rilancia, consentono di approfondire ulteriormente il tema nel tentativo di offrire un quadro quanto più ricco e plurale sulla questione.

Probabilmente sul piano teorico pare che lo schema mentale del cattolicesimo politico italiano non abbia del tutto assimilato due grandi insegnamenti provenienti dal secolo scorso. Si tratta dei pronunciamenti del Concilio Vaticano II e degli esiti del crollo del muro di Berlino – con la relativa fine del partito della Democrazia Cristiana e di quello comunista – che hanno ridisegnato le fondamenta del vivere da cristiani nel nostro frangente storico. Difatti sembra che l’assillo tanto dei cosiddetti cattolici tradizionalisti quanto di quelli progressisti sia – seppur attraverso differenti parabole – teso quasi esclusivamente a “cattolicizzare” ora una parte della società, ora un partito, ora un gruppo influente, ora un comitato d’interessi. Secondo questo schema, in un modo o in un altro, i cattolici in quanto raggruppamento più o meno organizzato sono chiamati a farsi sentire nella società, a farsi valere nelle correnti partitiche insomma a divenire sempre più visibili e rilevanti secondo la logica di questo mondo.

Ora simile modello poteva andar bene sino a qualche decennio fa. Ormai sono celebri le parole che il consigliere comunale della Democrazia Cristiana di Bologna, Giuseppe Dossetti, pronunciò nel 1956 in merito alla “coscienza di essere minoranza” con la quale i cattolici italiani dovevano, sin d’allora, cominciare a fare i conti. Conti che andavano fatti anche con le acquisizioni del Concilio Vaticano II il quale in luminosi passaggi della Lumen gentium, di Gaudium et spes e di Apostolicam actuositatem afferma che per specifica indole i laici cristiani ricercano il regno di Dio, e la sua giustizia, nel trafficare le cose del mondo; nell’accogliere e nel percorrere la pluralità delle opzioni possibili sul versante politico, sociale ed economico; nel declinare come forma di spiritualità l’impegno concreto nel lavoro, in famiglia, nei partiti, nelle associazioni. Tutto questo da vivere insieme ai cercatori e ai costruttori del bene comune presenti nella comunità umana nella quale interagire senza circuiti di cattolica autoreferenzialità.

Ciò significa che la cattolicità dell’azione che realizza il credente nella storia non s’identifica con lo stendardo destinato a certificare pubblicamente l’appartenenza a questo o a quell’altro gruppo organizzato di fedeli bensì con l’intenzione intima tesa alla carità e vissuta, al pari di tutti gli altri, con i mezzi propri di questo mondo. In merito a simile tema appare illuminante un passaggio dell’enciclica Fratelli tutti: «È carità stare vicino a una persona che soffre, ed è pure carità tutto ciò che si fa, anche senza avere un contatto diretto con quella persona, per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –, il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica» (Francesco, Fratelli tutti, n. 186).

Al di là di ogni ragionamento, o meglio a conferma degli stessi, c’è la testimonianza di alcune figure di santità che, dopo aver fatto sul serio i conti con la storia e con le acquisizioni del magistero ecclesiale, tramite la loro vita hanno profetizzato parlando «agli uomini per la loro edificazione, esortazione e conforto» (Prima Lettera ai Corinzi 14, 3). In particolare mi riferisco ai siciliani Piersanti Mattarella e Rosario Livatino che nell’esercizio delle loro responsabilità – politiche per uno e professionali per l’altro – hanno ricercato attraverso quei mezzi, e nel pieno rispetto degli stessi, la carità. Non a caso, entrambi hanno donato la vita a seguito di un martirio quotidiano caratterizzato da scelte, fedeltà, isolamento, coraggio, fermezza e speranza. Insomma Mattarella e Livatino tornano a dirci, per parafrasare una celebre espressione del Poverello d’Assisi, che il cristianesimo prima che organizzarlo o dirlo bisogna viverlo.

Dai due martiri siciliani, allora, ci giunge l’invito a provare a decifrare la qualità dei cattolici in politica non partire da un discernimento fondato sulla quantità della loro visibilità e rilevanza piuttosto, per dirla con lo scritto anonimo A Diogneto, dall’esito del loro tenore di vita che – se indirizzato alla carità – porterà frutti in abbondanza. Di conseguenza soltanto una lettura evangelica delle cose della politica potrà assicurare ai credenti una testimonianza moderna ovvero in grado di incidere nel tempo che viviamo come già accade in molteplici esperienze diffuse nei territori.

Rocco Gumina

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