«Si sono trasformati in macchine puntate in un’unica direzione». Midrash su Babele e la sua torre.

Etiopia generò Nimrod: costui cominciò a essere potente sulla terra. Egli era valente nella caccia davanti al Signore, perciò si dice: “Come Nimrod, valente cacciatore davanti al Signore”. L’inizio del suo regno fu Babele, Uruc, Accad e Calne, nella regione di Sinar. Da quella terra si portò ad Assur e costruì Ninive, Recobòt-Ir e Calach, e Resen tra Ninive e Calach; quella è la grande città.

Genesi 10:8-12

Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. E avvenne che, mentre viaggiavano dall’oriente, essi trovarono una pianura nella terra di Shinar, e vi si stabilirono. E si dissero l’un l’altro: «Orsù, facciamo dei mattoni e cuociamoli col fuoco!». E usarono mattoni come pietre e bitume come malta. E dissero: «Orsù, costruiamoci una città e una torre la cui cima sia in cielo, e facciamoci un nome per non essere dispersi sulla faccia di tutta la terra».

Genesi 11:1-4

Il midrash è il commento rabbinico alla Bibbia che si propone di metterne in luce gli insegnamenti giuridici e morali utilizzando diversi generi letterari: racconti, parabole, leggende. A lungo ignorata quando non disprezzata e assimilata al folclore, la letteratura midrashica è oggi considerata una interpretazione creativa e originale del testo biblico, anzi, l’interpretazione propriamente ebraica della Torà.

Secondo il libro della Genesi, dopo il diluvio l’umanità ricomincia dai pochi rimasti che appartengono al clan di Noé ed essi, in poco tempo, si dividono su tutta la terra conosciuta «ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle rispettive nazioni». Ciò viene illustrato nella cosiddetta “tavola dei popoli” al capitolo 10. In questo strano testo fa la sua comparsa tra i discendenti di Cam, uno dei figli di Noè, anche uno strano personaggio, Nimrod. Egli è il responsabile della costruzione del primo nucleo di Babele. Tutti gli uomini decidono di abitare questo luogo, una città verticale che prefigura la vita urbana nelle torri di vetro del XX secolo. Questa torre avrebbe toccato il cielo e sulla Terra sarebbe esistita una sola città, con un solo nome.

Una voragine venne scavata nel terreno e in essa vennero piantati pali altissimi contro i quali gli uomini cominciarono ad appoggiare i mattoni che le donne andavano man mano fabbricando. Su ogni mattone, grande quanto un essere umano, era inciso il nome di chi lo deponeva, come la firma su un decreto.

Non erano pensabili defezioni né rallentamenti nel ritmo di lavoro. Se una donna era colta da doglie, si distraeva il tempo necessario a tagliare il cordone ombelicale e legarsi al petto il neonato, poi con il bimbo al collo tornava ai suoi mattoni. Se tutto andava bene, e nessuno ne dubitava, i figli avrebbero ereditato lo scettro di un mondo nuovo e avrebbero comandato agli astri, alla pioggia, al sole, ai venti, alle piante e agli animali. Eppure non si trovava il tempo per dare il benvenuto a questi futuri superuomini.

Questo formicaio frenetico allarmò gli angeli: «Fermali, Eterno, Benedetto! Non vedi che stanno facendo?». «Lo vedo», rispose l’Eterno, «Ma esiste forse qualche passo della legge in cui siano previste punizioni per chi costruisce di comune accordo?». «No», risposero gli angeli, «ma la Legge prevede il riposo per servi e padroni nella stessa misura». «Quegli uomini non conoscono la Legge e non hanno servi. Nessuno costringe il suo vicino a lavorare. Sono in pace l’uno con l’altro e faticano di loro spontanea volontà». «Ma è una fatica insensata», insistettero gli angeli, «credono davvero di poter arrivare al cielo?”. «Bisogna sperare che quando saranno ben in alto, il panorama più vasto mostri loro mete migliori». «Ma tu sai che continueranno a guardare in su, Eterno. Fermali! Da loro la Legge della tua Misericordia!». Così parlarono gli angeli e l’Eterno li benedì per questo ma rispose: «Non la capirebbero. l’uomo ha la testa dura: capisce dopo essersela rotta o dopo aver cercato. L’unico aiuto che posso dar loro è far progredire rapidamente l’impresa per affrettare il momento della comprensione».

Ognuno prendeva da terra mattoni fatti con la terra e li trasportava in alto, sempre più in alto, con fatica sempre maggiore e senza potersi fermare a riprendere fiato, perché la minima sosta rischiava di bloccare il flusso dei portatori provocando incidenti.

Ormai occorreva più di un anno per arrivare in cima, e un anno esatto per tornare giù. Se un uomo si feriva o cadeva da quell’altezza nessuno ci faceva caso, ma se si rompeva o andava perduto un mattone tutti piangevano perché sarebbero dovuti passare più di due anni prima di poterlo sostituire.

L’unica pausa in quel moto perpetuo aveva luogo in cima alla torre dove, prima di attaccare la discesa, i portatori di mattoni si fermavano a cementarli con la calce, facendo bene attenzione a non guardare mai verso terra per paura delle vertigini.

Gli angeli tornarono dall’Eterno: «Guarda, sono arrivati tanto in alto che non ce la fanno a guardare il panorama». «Li vedo», disse l’Eterno rattristato, «si sono trasformati in macchine puntate in un’unica direzione. Li ho lasciati fare finora, perché non si ingannano e non si uccidono a vicenda. Ma che pace è questa in cui si è perso il valore della vita umana? Venite, scendiamo tra questi sciocchi, confondiamo le loro lingue e costringiamoli a pensare».

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