Padre Turoldo, uomo non delle sacrestie ma delle strade e delle piazze. Testimonianza di don Angelo Casati

La nostra amicizia veniva da lontano. Non era l’amicizia dell’ultima ora – l’ora del cancro – quando tutti, o quasi tutti, presero a celebrarlo: anche quelli che lo avevano osteggiato fino a pochi giorni prima. Tutto era cominciato da un affascinamento che risaliva ai tempi del mio liceo in seminario.

Nei seminari leggere Montale, Ungaretti, Turoldo era cosa guardata, direi, con sospetto. Io invece ero affascinato dai suoi versi, asciutti, ma abitati dallo stupore: Io non ho mani/ che mi accarezzino il volto …

Cominciavo così a seguirlo, come da lontano, quasi furtivamente. Erano i tempi di una frequentazione e di un’amicizia inespresse.

Poi mi fu dato conoscerlo da vicino: conoscere i suoi occhi, la sua voce, le sue mani.

Erano gli anni in cui le strade si infiammavano di immaginazione e, a volte, purtroppo anche di violenza.

Fu a Busto Arsizio che incontrai per la prima volta padre Turoldo.

Ricordo che in quell’occasione commentava la parabola del samaritano. “Un uomo”, leggeva scandendo, “un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…”, e la sua voce di tuono a sottolineare: “Un uomo, capite, senza aggettivi, senza qualifiche o appartenenze. Un uomo! Ti basta che uno sia un uomo, perché tu ti senta chiamato a fermarti!”.

Non ci siamo più persi di vista.

Parroco a Lecco, frequentavo nei primi anni la sua lectio all’abbazia di Sant’Egidio. E lui frequentava la nostra parrocchia che lo ospitò per tre mesi. Ricordo i tempi in cui amici mi chiedevano: “Hai visto il profeta?”, riferendosi a padre Turoldo. Noi vedevamo la differenza, un abisso, tra il suo viso, i suoi occhi, il fuoco che l’accendeva e i visi immobili, smunti, gelidi, truccati, di plastica di tanti cosiddetti personaggi d’allora e di oggi. Ciò che aveva dentro gli parlava dagli occhi, dal viso, dalle mani. Apparteneva a una razza scomoda, quella dei profeti, che sono per natura disturbatori della falsa tranquillità delle coscienze.

Padre Davide non ha mai addomesticato il Vangelo, non ne ha mai spento il fuoco: per lui il fuoco era il fuoco, così come il sale era il sale, il lievito il lievito e il vino il vino: il fuoco, il sale.

David liberò la Parola. La fece vibrare nella vita. Sulla piazza. La predicazione di David, segnata da passione accesa per Dio, per il popolo, per gli ultimi della terra, non poteva non suscitare, come ogni parola profetica, consensi e ripudi, accoglienza e ostilità. Dentro e fuori la Chiesa.

Per fedeltà a Dio e alle Scritture sacre, non poteva non prendere la parola in difesa degli ultimi, una categoria dell’umanità che ebbe un posto di privilegio, terra sacra, nella sua vita. Gli ultimi di ogni terra e di ogni condizione sociale, gli ultimi che Gesù difese a costo di morte restituendo loro quella dignità di cui spesso vengono illegalmente espropriati.

Gli ultimi, i dimenticati, volti cancellati, inghiottiti nelle nebbie della nostra dilagante indifferenza, nelle nostre agghiaccianti leggi dell’esclusione, esclusioni illegali in umanità.

Lui, per passione fremente, per fedeltà senza sconti, gli ultimi li volle portare da dietro le quinte, dove l’ingiustizia li aveva confinati, sul proscenio del palco. Infine gli ultimi furono i suoi amici. Lui che si sporcava di polvere e vento, uomo non delle sagrestie ma delle strade e delle piazze che si accendevano dove passava, s’accendevano al sogno della giustizia e del coraggio.

L’amicizia, scriveva, dopo la Bibbia e dopo le lettere dei condannati a morte della Resistenza, è oasi ancora intatta/ nella memoria l’albero più verde fra tutti/ alto sulle nuove macerie.

don Angelo Casati

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