Che significato dare alla pace oggi in questo mondo pieno di guerre?
Nel mondo di oggi parlare e operare per la pace è un impegno complesso e profondo. Distinguerei due ambiti di significato e quindi di azione, partendo da due sollecitazioni che vengono dalla Tradizione e dal magistero cristiani.
Innanzitutto la pace non può essere ridotta all’assenza di guerre e di conflitti. Lo Shalom biblico richiama l’idea di una pace completa, intera, compiuta. Vale ancora quel che diceva Giovanni Paolo II qualche decennio fa: «Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono». La pace è il tendere ad un mondo giusto e fraterno; ben lungi dall’essere soltanto una tregua tra una guerra e l’altra (ma oggi, nel susseguirsi ininterrotto delle tante guerre, quale tregua?). Questa tensione non è un’illusione irenica o una dichiarazione di buoni principi. Essa è un lavorio che continua sia nel tempo della guerra che nel tempo della sua assenza e che si occupa della gestione dei conflitti, della lotta contro le ingiustizie e della cura delle relazioni e della convivenza. Essa comprende tutte quelle azioni e quei progetti attuati da uomini e organizzazioni di ogni nazionalità e appartenenza, in ogni parte del mondo. Il cristiano che si impegna per far avanzare il mondo verso questa pace “compiuta” sa di essere dentro un movimento che lo affratella ad ogni uomo e che ha il suo “motore” principale nella promessa del Dio della pace. La pace, oggi più che mai, è un compito in cui impegnarsi ostinatamente e un dono da chiedere e sperare senza stancarsi.
L’altra sollecitazione sulla pace nel mondo di oggi riguarda la realtà della guerra. Già nel 1965 don Lorenzo Milani, nella sua “Lettera ai giudici”, faceva notare: «Nella prima guerra mondiale i morti furono 5% civili 95% militari (si poteva ancora sostenere che i civili erano morti “incidentalmente”). Nella seconda 48% civili 52% militari (non si poteva più sostenere che i civili fossero morti “incidentalmente”). In quella di Corea 48% civili 16% militari (si può ormai sostenere che i militari muoiono “incidentalmente”). Sappiamo tutti che i generali studiano la strategia d’oggi con l’unità di misura del megadeath (un milione di morti) cioè che le armi attuali mirano direttamente ai civili e che si salveranno forse solo i militari». Sono osservazioni ancora più attuali oggi, dove le tecnologie dei droni e dell’intelligenza artificiale, attraverso i “sistemi d’arma autonomi”, sono applicate alla guerra e dove lo spettro dell’uso delle armi atomiche è ritenuto sempre più possibile in diversi scenari bellici. La realtà della guerra è completamente cambiata nel giro di pochi decenni. Non altrettanto si può dire della riflessione etica sulla guerra. Sia in ambito ecclesiale che civile, usavamo fino a poco tempo fa ancora le categorie della “guerra giusta”, derivate a sua volta dalla fattispecie della “legittima difesa”. Esse erano state formulate per le scaramucce medioevali e potevano essere ancora adattate, ad essere generosi, alle guerre dell’età moderna. Papa Francesco, nella “Fratelli tutti” (n. 256-262), ha denunciato l’inadeguatezza dello schema morale della “guerra giusta” di fronte alla realtà bellica contemporanea e allo scenario di “guerra mondiale a pezzi” odierno, dove con «ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive» ognuno pretende di giustificare e legittimare le proprie operazioni militari.
Ci sono guerre che vanno avanti ormai da anni e non sembrano risolversi, ci si può abituare?
Non ci si può abituare alle guerre. Specialmente in una visione del mondo che pensa l’essere umano dentro la fraternità umana. Ogni guerra, ogni azione violenta e ogni divisione ci riguarda e ci strazia perché è dentro la nostra famiglia. Ancor di più perché praticamente in ogni situazione le guerre cercano una giustificazione nella fraternità di alcuni contro altri, paradossalmente distruggendola e rinnovando il dramma di Caino e Abele. Gli interessi economici e di potere vengono continuamente mascherati da scontri di civiltà, di religione, di popoli. Non ci si può abituare alle guerre ed ancora meno al fatto che si voglia obbligare a dirle giuste.
Essere pacifisti oggi è ancora possibile? Ci sono argomentazioni che vengono sempre smontate, basti pensare al conflitto russo ucraino, chi è per la pace passa per antagonista di uno o dell’altro popolo.
Essere davvero pacifisti oggi significa essere convinti che tutte le questioni politiche, economiche, di confine e di potere non valgono le sofferenze o, peggio, la vita di una persona. Questa convinzione deve essere posta come prioritaria a qualunque discorso. Oggi, al netto delle parole di circostanza, la comunicazione sulla geopolitica (ma non solo quella) ha i suoi dogmi ed è intollerante ad ogni discorso etico. Il dogma principale sembra proprio essere che nelle relazioni internazionali (ma anche in politica interna), non valgono considerazioni etiche, ma soltanto interessi e rapporti di forza. Per non rimanere invischiati nelle interminabili chiacchiere geopolitiche che pretendono di schierare ognuno pro o contro una delle parti, serve un punto di vista diverso. Occorre, come diceva Dietrich Bonhoeffer, il teologo ucciso dai nazisti, imparare a «guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi – in una parola dei sofferenti». E non dalla parte dei potenti. Essere pacifisti oggi si identifica, prima di qualunque altra cosa, con uno sguardo e una mentalità diversi ed alternativi.
La voce della chiesa sulla pace è diventata un po’ più sola?
Sui mezzi di comunicazione e di conseguenza nell’opinione pubblica, negli ultimi anni si sono sdoganate affermazioni e valutazioni che fino a poco tempo fa si sussurravano come cose che si fanno ma non si dicono. Oggi parlare di pace o di disarmo è mal sopportato e accolto con esplicita e crescente insofferenza. Fino a pochi anni fa le banche cercavano di tenere nascosti, per quanto possibile, gli investimenti in armi e consideravano una utile strategia di marketing ogni certificazione, vera o fittizia, di eticità. È notizia di quest’estate che è caduto anche l’ultimo tabù: due colossi bancari francesi, che controllano varie banche italiane, anche locali, hanno dichiarato apertamente, quasi rivendicandolo (aggiungerei io: senza vergogna!), di investire nel settore della difesa. Ovvero nella produzione e nel commercio di armi.
In più, all’interno dell’arcipelago delle varie chiese cristiane e, a volte, dentro la stessa denominazione vi è molta discussione sul tema della pace, tra voci profetiche non violente e benedizioni delle armi. All’interno dell’universo cristiano e di comunità cattoliche, ortodosse ed evangeliche la voce di papa Francesco e dei tanti pacifisti che si richiamano al vangelo non sempre trova sintonia.
Perché le voci che invocano la pace non restino sempre più isolate e non vengano soffocate dal senso di impotenza e dalla disperazione occorre che le sole parole siano accompagnate e trasformate in pratiche possibili. Molte cose sono cambiate e molte scelte o obiezioni di coscienza individuali di carattere pacifista o nonviolento hanno perso di incisività o non sono semplicemente più possibili. Occorre uno sforzo creativo dei movimenti e delle associazioni per mettere al primo posto la coscienza e la responsabilità di ognuno, rilanciando e dando significato nuovo a progetti del passato (come obiezione alle spese militari o scelte finanziarie etiche) o inventandone di nuovi.