
Siamo nella Chiesa apposta per sentirci serrare dalle sue rotaie che ci impediscano di deviare tanto in fuori che in dentro. Queste rotaie non sono costituite dalle interviste del cardinale Ruffini sul giornale della Fiat. Sono invece nel Catechismo diocesano e per portarsele in casa bastano 75 lire. Dopo di che sai preciso cosa puoi dire e cosa no. Tutto quel che non è proibito è permesso e credimi che non è poco.
Del resto, se ti restasse ancora qualche scrupolo hai nella Chiesa un altro motivo di serenità ed è che essa è viva ed è lì apposta per richiamarci coi suoi decreti ogni volta che ce ne fosse bisogno (ho detto coi suoi decreti, non con gli articoli dei cardinali giornalisti).don Lorenzo Milani
L’originale formazione e vicenda umana, oltre al particolare contesto di Chiesa locale e nazionale, strutturarono il ministero e la prassi pastorale di don Milani su una teologia al cui proposito sono doverose alcune precisazioni previe riguardo alle origini e alle modalità di espressione.
Negli scritti di don Milani non vi è traccia di una riflessione sistematica sulla teologia (nemmeno sulla teologia pastorale) ma piuttosto il tentativo di mettere a punto un metodo pastorale. Esso appare strutturato su alcune linee teologiche che non vengono mai adeguatamente esplicitate, forse a causa di una inconsapevolezza dell’autore stesso unita alla sua costante e forte polemica contro l’intellettualizzazione e l’imborghesimento del prete1.
Ciò nonostante, Don Milani ebbe molte occasioni per entrare in contatto con correnti teologiche e pastorali innovative, tra cui quelle che, nate in Francia, furono prima condannate e poi costituirono la struttura dell’edificio teologico del magistero del concilio Vaticano II: le scuole domenicana (Chenu e Congar) e gesuita (Danielou e De Lubac) e le esperienze legate alla pastorale operaia (Suhard).
Accanto a questo aspetto va considerato come si manifesti in lui “un ancoramento all’immagine tradizionale del prete così come il Concilio di Trento l’aveva delineata”2, basata sull’immagine del buon pastore e sul concetto del sacerdote come alter Christus che rinnova in se stesso il sacrificio di Cristo3.
Ecclesiologia
Nell’analisi del modello presbiterale di don Lorenzo Milani è opportuno partire non dalla sua concezione del ministero sacerdotale, ma dalla visione ecclesiologica perché nei suoi testi difficilmente si percepisce un distacco, anche solo logico, tra ministero presbiterale e Chiesa.
L’ecclesiologia sottesa al ministero di Milani “sostanzialmente identifica la Chiesa con la gerarchia ecclesiastica, rivelando con ciò, una ecclesiologia preconciliare”4 mentre la definizione di maggior rilievo del Concilio Vaticano II sarà la configurazione della Chiesa come Popolo di Dio riunito intorno al Vescovo. Attraverso l’esame degli scritti del priore di Barbiana, riguardo alla sua visione della Chiesa, si possono individuare alcune caratteristiche peculiari della sua spiritualità e del suo senso di appartenenza ecclesiale.
Milani non disgiunge mai la Chiesa, che dichiara di amare con affetto filiale, dalle singole persone del mondo visibile che la rappresentano e la incarnano, anche quando con le loro decisioni e i loro sbagli sembrano tradire quello stesso amore di figlio: “Errori nella Chiesa ce ne sono. Ma la Chiesa è la Madre. Se uno ha la madre brutta, chi se ne frega”5. Inoltre la Chiesa, oltre che madre, è anche luogo e strumento di Cristo per la remissione dei peccati6.
Ma appunto questo alto concetto di Chiesa lo fa vivere in continua tensione esistenziale per migliorare l’istituzione ecclesiale stessa, per renderla più conforme alla propria vocazione di «Sposa di Cristo», più coerente con la propria missione di annuncio, di formazione delle coscienze, di condivisione con gli emarginati sia attraverso il suo peculiare modo di essere pastore (cioè prete e maestro) sia con la critica costruttiva7.
La comunione con il vescovo
Il rapporto col proprio vescovo appare fondamentale nell’immagine ecclesiologica presente nel ministero presbiterale milaniano e particolarmente sentito e sofferto nell’esperienza concreta. Il vescovo e l’unità del presbiterio diocesano con esso è l’ambito in cui don Milani realizza le sue iniziative di apostolato e in cui vive la sua vocazione. Questo diviene maggiormente evidente verso la fine della sua vita quando, col progredire della malattia, si mostrerà sempre più preoccupato di fronte al rischio che la sua opera di sacerdote apparisse staccata dalla Chiesa8.
Don Lorenzo Milani si percepisce, in quanto prete, come parte viva di una Chiesa che nel proprio vescovo deve trovare il suo punto di riferimento e che, nel pastore suo e della sua diocesi, non in altri, deve trovare protezione e difesa nel momento in cui cercasse di vivere più radicalmente il Vangelo per una via di santificazione non condannata dal magistero.
Un’altra caratteristica del rapporto con i superiori è la rivendicazione del diritto, ma soprattutto del dovere, di critica e informazione nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche; per questo contesta il comportamento usuale del prete che non dice al proprio vescovo quello che pensa, non aiutando, in questo modo, né il vescovo stesso, né la Chiesa diocesana intesa come famiglia che, per migliorare, ha bisogno del contributo di tutti i suoi figli. E proprio perché la diocesi deve essere una famiglia – si noti, preconciliarmente, del vescovo e dei preti! – c’è l’esigenza di un rapporto chiaro e dialogante9. Il prete ha il diritto-dovere di parlare a costo di pagare di persona: “Il peggio che ci potrà succedere sarà d’esser combattuti da fratelli piccini con armi piccine di quelle che taglian la carriera. Ma son armi che non taglian la Grazia né la comunione con la Chiesa. Il resto tenteremo di non contarlo”10. Egli applica nel rapporto col vescovo gli stessi principi sull’obiezione di coscienza e sulla responsabilità personale che insegnava abitualmente a scuola: “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”11.
Dando la priorità all’obbedienza alla propria coscienza, di conseguenza, non considerava il vescovo né un consigliere, né un comandante ma un «ὲπίσκοπος», un ispettore, “cioè, considerare il vescovo secondo l’etimologia della parola: episcopo, ispettore dell’ortodossia e della disciplina: ortodossia della fede e disciplina, obbedienza ai canoni del diritto canonico…”12.
1 Su tale argomento è molto indicativo il capitolo La cultura del prete in L. Milani, Esperienze Pastorali, pp. 205-217.
2 A. Riccardi, La Chiesa italiana fra Pio XII e Paolo VI, p. 46.
3 Riguardo al concetto del sacerdote alter Christus mi pare significativo però che esso venga citato da Milani solo nel periodo del seminario nelle lettere alla madre agnostica alla quale spiega, con i concetti da lui posseduti in quel momento, il suo percorso verso il sacerdozio e il significato dello stesso. Tale uso di questo concetto teologico è evidente nella lettera del seminarista alla madre recante la data 27 marzo 44 Firenze in L. Milani, Lettere alla madre, a cura di G.Battelli, Genova, Marietti, 1997 (edizione ridotta di L. Milani, Alla mamma. Lettere 1943-1967, a cura di G. Battelli, Genova, Marietti, 1990), pp. 25-27.
4 A. Zambianchi, “Io non lascio la Chiesa a nessun prezzo al mondo perché mi ricordo cos’era vivere al di fuori di essa”. Don Lorenzo Milani e la sua esperienza sofferta e profetica di Chiesa, Forlimpopoli (FO), s. e., 1997, p. 9.
5 Citata in Ibidem e in C. Monti, Ministero presbiterale in don Milani, p. 36 (qui in nota è riportato “Testimonianza raccolta dal dottor Vittorio Lampronti”).
6 “Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa”. A padre Reginaldo Santilli – Firenze, Barbiana, 10.10.1958, in L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, pp. 86-89, 89.
7 “Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo il loro bene, cioè che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno come tutti noi. Forse più di tutti noi per la responsabilità maggiore che porta e per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe”. Un muro di foglio e incenso, in L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, p. 125.
8 Questa preoccupazione appare in modo esemplare in una lettera in cui Milani dimostra l’inconsistenza di una notizia giunta al vescovo a proposito di una raccolta fondi del P.C.I. in favore del prete stesso, e in cui ringrazia Florit per una donazione a favore della sua scuola: “Le sono molto grato del suo pensiero per le mie necessità. Non le nascondo che qui di soldi ce n’è bisogno sempre e che se vengono da lei mi fanno più piacere di tutti gli altri perché i ragazzi mi vedono tangibilmente legato alla Chiesa che servo da ventidue anni come un cane fedele. Per fortuna da qualche mese in qua vanno arrivando moltissime lettere di sacerdoti solidali, ma la sua amicizia è di più per me parroco della diocesi di Firenze e ristabilisce l’equilibrio nel coro non richiesto e pure carissimo degli innumerevoli lontani che scrivono”. All’Arcivescovo di Firenze card. Ermenegildo Florit, Barbiana, 5.1.1966, in L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, pp. 273-276, 275-276.
9 “Non è sdegno per i vescovi che occorre, ma per noi stessi, figlioli vili e egoisti che abbiamo amato più la nostra pace che il bene del nostro padre e della nostra Chiesa. Fermiamoci dunque un poco in esame di coscienza. […] Abbiamo mai provato a parlar loro francamente così come si parlerebbe al nostro figliolo colto in fallo? No, via, bisogna confessarlo, nessuno di noi si è curato di educare il suo vescovo. […] La vita di un vescovo! […] Parallelo al crescendo di importanza un crescendo di isolamento. In presenza a lui i giudizi andavano diventando ogni giorno più prudenti e più chiusi. […] Non vien voglia di dire al vescovo ciò che si pensa. E’ più comodo trattarlo coi soliti guanti dorati, guanti di menzogna che danno il modo a lui e a noi di vivere senza seccature. […] Tacere non è rispetto. E’ dare una spallucciata dopo aver visto degli infelici che non sanno vivere, gente in mare che non sa nuotare. Disinteressarsi del prossimo è egoismo. Disinteressarsi dell’educazione dei fratelli che hanno in mano tanta parte del bene della Chiesa è disinteressarsi della Chiesa! Meglio essere irrispettosi che indifferenti davanti a un fatto così serio”. Un muro di foglio e incenso, in L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, p. 128-130. Interessante su questo tema anche la già citata lettera scritta con don Borghi A tutti i sacerdoti della diocesi fiorentina e per conoscenza all’arcivescovo mons. Florit, in L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana. In questo senso anche: “L’isolamento del vescovo e l’atteggiamento d’ossequio servile che talvolta lo circonda sono sentiti da Milani come un dramma di chi profondamente crede nell’episcopato”. A. Riccardi, La Chiesa italiana fra Pio XII e Paolo VI, p. 39.
10 Un muro di foglio e incenso, in L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, p. 125.
11 Lettera ai giudici, Barbiana 18.10.1965, in L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, pp. 245-268, 260.
12 Chiesa Santità Obbedienza, trascrizione di un’intervista incisa su nastro in G. Pecorini, Don Milani! Chi era costui?, pp. 285-338, 285.