
Poiché l’attività economica è per lo più realizzata in gruppi produttivi in cui si uniscono molti uomini, è ingiusto e inumano organizzarla con strutture e ordinamenti che siano a danno di chiunque vi operi. […] Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita; innanzitutto della sua vita domestica […]. Ai lavoratori va assicurata inoltre la possibilità di sviluppare le loro qualità e di esprimere la loro personalità nell’esercizio stesso del lavoro. Pur applicando a tale attività di lavoro, con doverosa responsabilità, tempo ed energie, tutti i lavoratori debbono però godere di sufficiente riposo e tempo libero che permetta loro di curare la vita famigliare, culturale, sociale e religiosa.
Gaudium et spes, n. 67
Posta dunque la persona al centro del lavoro, è necessario analizzare come le nuove forme di lavoro atipico influenzino e mettano in questione gli altri ambiti di vita dell’uomo. A titolo di esempio e cogliendo ispirazione dal passo della Gaudium et spes sopracitato, si accennerà ai seguenti ambiti:
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Effetti psicologici dell’instabilità del lavoro;
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Progettualità e identità – «vocazione» lavorativa e di vita;
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Famiglia e vita di coppia.
Va premessa la necessità di pensare i lavoratori coinvolti dal fenomeno della flessibilità occupazionale come un gruppo estremamente differenziato. Per analizzare correttamente gli effetti di natura psicosociale, formativa e comportamentale correlate alle condizioni lavorative atipiche bisogna “evitare di far passare l’idea che i lavoratori flessibili o contingenti siano una categoria sociale omogenea di occupati che sperimenta le stesse condizioni di vita con i medesimi costi o vantaggi personali o sociali”1
4.1 Effetti psicologici dell’instabilità del lavoro
“Nel linguaggio comune, si parla di lavoro precario in almeno due accezioni: una, più concreta e oggettiva, riguarda l’aumento della mobilità/flessibilità delle forme entro cui si articola il rapporto di lavoro; l’altra, più immateriale e soggettiva, fa riferimento alla sempre più diffusa sensazione di insicurezza per la propria situazione lavorativa e alle conseguenze (economiche, sociali, psicologiche) che ne derivano”2. Gli studi sugli effetti psicosociali dell’instabilità del lavoro riportano risultati assai differenziati e apparentemente contraddittori.
Alcuni casi sono caratterizzati da insoddisfazione e disinteresse nei confronti dell’organizzazione, al di là del rispetto dei patti contrattuali a livello formale, percepiti assieme ad un sentimento di rivalsa nei confronti dei lavoratori stabili, indipendente dalla loro concreta condizione e mansione lavorativa. In particolare, nei casi di lavoratori interinali a più modesta professionalità, si presentano un senso di scoraggiamento e un atteggiamento pessimistico verso il futuro (causato e fondato sull’esperienza di scarsa possibilità di utilizzare le competenze che si pensano di avere e di svilupparsi umanamente e professionalmente) analogo a quello emerso in tutti gli studi sulla disoccupazione. Il lavoro atipico viene percepito come una minaccia sociale responsabile della destabilizzazione della vita delle persone, posta in balia di un futuro poco comprensibile e controllabile, in particolare nei giovani non ancora usciti dall’adolescenza (dove la sensazione sarà ancora più accentuata perché questo senso di insicurezza si somma ai molti campi dell’esperienza in evoluzione e percepiti come incerti) e nelle persone scarsamente dotate di risorse psicosociali, culturali e familiari (per i quali gli spazi lasciati dalla presunta flessibilità, ben lontani da essere spazi di libertà, rappresentano solo disagi e conseguenze soggettive negative). Uno dei limiti più sentiti in questi casi è la ridotta possibilità di instaurare relazioni significative durature, “basate sull’impegno, la stabilità, il sostegno reciproco, in quanto ci si trova a lavorare con altri per periodi limitati di tempo, restando soggettivamente distanti tra loro: la vita lavorativa è «realizzata da stranieri fra stranieri»”3. In questa situazione di temporaneità resta compromesso lo sviluppo della solidarietà (basata su consuetudine, fiducia e rispetto reciproco). Inoltre, l’instabilità, nel caso particolare dei contratti di lavoro interinale (o di somministrazione di lavoro), influisce molto sul cosiddetto contratto psicologico, cioè sulle nuove e complesse dinamiche che emergono nel legame tra la persona e l’organizzazione (il lavoratore si trova in una situazione di «doppia dipendenza», da una parte nei confronti dell’agenzia di lavoro o impresa fornitrice, dall’altra nei confronti dell’impresa utilizzatrice). In generale il contratto psicologico si muove sempre tra una posizione puramente «transazionale» (“fa riferimento agli obblighi riguardanti uno scambio economico, in relazione a precisi periodi e doveri”4) e una puramente «relazionale» (“si riferisce a dei vincoli legati ad uno scambio sociale”5, cioè alla costruzione di un rapporto di reciproca fiducia e stima, che portano l’individuo a considerarsi parte integrante dell’organizzazione); nel caso dei lavoratori temporanei la durata del contratto è determinante nella costruzione del tipo di rapporto. Infatti “i lavoratori temporanei appaiono, di fatto, essere più relazionali nelle loro posizioni contrattuali rispetto ai lavoratori con contratti brevi che mostrano, viceversa, un orientamento più transazionale. Tanto più il contratto psicologico è limitato nella stabilità – intesa come condizione di dinamicità e flessibilità – e nello scopo – definito come il grado con cui il limite tra l’ambito lavorativo e quello rappresentante la vita personale viene riconosciuto come permeabile – e tanto meno il lavoratore riuscirà a rendersi e considerarsi assimilabile all’organizzazione per la quale lavora: il contratto psicologico può connotarsi, quindi, nei lavoratori interinali, più in termini economici che socio-emotivi”6. Nel caso di rapporti di lavoro interinale che non si prolungano sufficientemente nel tempo, la dimensione economica e dei vincoli contrattuali sarà prevalente e il lavoro rischierà di venir percepito come pura compravendita di manodopera; nel caso in cui, invece, i rapporti tra lavoratore e agenzia di lavoro avessero una durata cospicua (come per esempio nel contratto di lavoro in somministrazione a tempo indeterminato) l’attaccamento della persona all’organizzazione tenderebbero a spostarsi dall’impresa in cui materialmente sarebbe prestata l’opera all’organizzazione fornitrice di lavoro temporaneo.
Accanto ai casi di vissuti negativi relativi alla precarietà del lavoro, ve ne sono altri in cui “l’aspetto che più colpisce l’attenzione, su cui finora non ci si è soffermati, è la scarsa preoccupazione per l’instabilità dell’occupazione. Infatti, mentre ci si aspetterebbe di rilevare ansia e inquietudine per l’assenza di garanzie sulla continuità dell’impiego […], sembra che molti lavoratori affrontino questa situazione con relativa tranquillità, sottolineandone prevalentemente gli aspetti positivi”7. Concretamente si va dai lavoratori che vedono in modo estremamente positivo le nuove trasformazioni del lavoro (normalmente per convinzione ideale8) a quelli che nel confrontarsi e rapportarsi con il mondo del lavoro fanno professione di un sano realismo9: “ritengono il lavoro una sfera importante della loro vita e sono soddisfatti soprattutto degli aspetti più intrinseci della vita lavorativa, come l’autonomia o l’autogestione, pur essendo, al contempo, insoddisfatti di quegli aspetti che la flessibilità ha ridotto o cancellato, come le opportunità di carriera o la sicurezza del posto”10. Spesso, però, l’atteggiamento di sana percezione della realtà si restringe fino a chiudersi in una sorta di fatalismo che non permette di immaginare altro lavoro che non sia quello atipico: “Rischiare bisogna rischiare, altrimenti uno non vive! Non ci sono alternative. L’idea che uno va a lavorare in una grande azienda per tutta la vita non esiste più, questo è un dato di fatto che dobbiamo stamparci in testa”11; fino a che essere assunti con contratto a tempo indeterminato appare un’eccezione alla regola e suscita reazione stupite: “Ho appena trovato un nuovo lavoro e sono contenta. Ho fatto il colloquio e mi hanno assunta. Per di più a tempo indeterminato. Mi vergogno quasi a dirlo ma è andata così: ho un contratto a tempo indeterminato!”12.
Questi atteggiamenti di scoraggiamento o di positiva o realistica accoglienza delle trasformazioni del mondo del lavoro sono influenzati, oltre che da variabili soggettive della persona (carattere, capacità di reazione, risorse, necessità di attribuire un senso e una coerenza alle proprie scelte e alle proprie vicende lavorative, processi di adattamento delle aspettative agli obiettivi raggiungibili, etc. …), anche da molti fattori esterni: il contesto locale caratterizzato da più o meno opportunità occupazionali (che rendono più o meno incombente il rischio disoccupazione) e da più o meno dinamicità (è ovvio che un lavoratore lombardo percepirà i rischi della flessibilità in modo meno accentuato di uno del Mezzogiorno), la presenza di reti famigliari di protezione contro l’instabilità, il tipo di esperienze lavorative vissute dalle persone con cui ci si confronta giornalmente (stabili o atipiche, percepite e trasmesse positivamente o negativamente, etc. …), l’influsso dei mass media13.
4.2 Progettualità e identità – «vocazione» lavorativa e di vita
La dimensione di instabilità del mondo dell’occupazione rischia di mettere in questione la capacità di progettualità delle persone (già compromessa dalle dinamiche di fragilità tipiche del mondo postmoderno) sia nella vita extralavorativa sia all’interno del percorso e dell’identità professionale.
Il lavoro precario, sia attraverso i problemi materiali che attraverso gli effetti di incertezza psicologica, può causare serie difficoltà alla capacità di progettare il futuro, cioè nel riuscire a pensare a lungo termine e quindi a prendere decisioni importanti, impegnative ed eventualmente irrevocabili circa la propria vita. Infatti “sembrano in gioco ostacoli nella elaborazione e nel funzionamento del sé che si esprimono spesso nella forma di un abbassamento dell’autostima e nel senso di autoefficacia e che accentuano il rischio di disagi di natura psicologica, come l’insicurezza, l’ansia o stati depressivi”14. I disagi materiali della precarietà, molto spesso alla base di quelli psicosociali, non sono causati solo dalla mancanze di certezze circa la continuità del lavoro, ma anche dalla mancanza di tutele, soprattutto di assistenza sanitaria, che pone il lavoratore in condizione di vulnerabilità di fronte a qualunque imprevisto o malanno che pregiudichi anche per tempi brevi la propria capacità di lavorare15. Inoltre molti problemi sono causati dalle caratteristiche del reddito dei lavoratori flessibili, non tanto in ragione della scarsità di risorse quanto per l’incertezza relativa circa il lavoro stesso e i tempi dei compensi. La diffusione di contratti atipici, se spesso è un fattore che aumenta la capacità di agire degli individui sul mercato del lavoro rendendo più facile l’uscita dalla condizione di disoccupazione, contemporaneamente rappresenta un limite alla libertà di conseguire i propri obiettivi extralavorativi. L’incertezza dell’entità e della continuità del reddito rende difficili e troppo rischiose molte scelte: “si pensi ai giovani che continuano a vivere con i genitori perché non hanno un reddito sufficientemente stabile per affittare o comperare una casa, e alle coppie che posticipano il matrimonio o la nascita dei figli al momento in cui avranno raggiunto una stabilità occupazionale. E anche decisioni meno radicali, ma comunque importanti, come l’acquisto di un’auto, l’investimento in un corso di formazione o la stessa organizzazione delle vacanze possono risentire in modo negativo della mancanza di un reddito stabile”16. È importante anche considerare come la temporalità della programmazione dell’ambito extralavorativo si intrecci con quella lavorativa: i disagi di una temporalità breve riguardo il lavoro sono sentite principalmente da chi desidererebbe compiere impegnative scelte di lungo periodo che mal si conciliano con il corto respiro dei contratti; invece per coloro che si trovano in una condizione di vita transitoria, come i giovani ai primi anni lavorativi, gli studenti universitari o chi è in cerca di un impiego più rispondente ai suoi desideri, l’instabilità rende possibile l’impiego di limitate risorse progettuali (al limite della pura transazionalità) e quindi la marginalizzazione di un’attività che spesso non corrisponde alle proprie aspettative. Il rischio implicito è che ad un sempre maggior adattamento ai tempi brevi del lavoro atipico corrisponda una sempre minor capacità di progettare il futuro e di assumersi scelte con carattere di definitività. Se navigare a vista nel mercato del lavoro contemporaneo è una qualità indispensabile, nella vita personale e relazionale significa non pervenire mai ad una condizione adulta.
La persona, oltre a fare progetti per la sua vita extralavorativa, elabora una certa progettualità riguardante la propria professione, che, nel caso del medio lungo termine, entra a far parte della propria identità; specialmente per alcune professioni (normalmente dove il coinvolgimento di tutta la persona è alto e dove vi è una forte dimensione relazionale) viene usato nel linguaggio comune il termine «vocazione». Alcune ricerche17, specialmente in ambito statunitense, mostrano una visione sostanzialmente positiva del contesto contemporaneo per quanto riguarda lo sviluppo delle capacità e possibilità di progettazione e identità professionale. Esse, prendendo in considerazione le principali tappe dello sviluppo del lavoro nella storia, mostrano come il valore del lavoro, la sua considerazione e la sua relazione con il resto della vita sia cambiato nel corso del tempo: dall’indifferenziazione tipica delle economie primitive basate sulla caccia e sulla raccolta, alle prime differenziazioni tra tempi del riposo e del lavoro e la divisione delle mansioni con la rivoluzione agricola che si specificheranno nei mestieri o professioni, fino alla nascita del rapporto tra identità e lavoro, fattosi più stretto dopo la Riforma protestante, dove il valore dell’impegno nel mondo assume un deciso carattere spirituale e vocazionale oltre che di segno della benevolenza divina. Ma solo negli anni recenti il lavoro, cambiata la sua concezione da necessità naturale a impresa molto più individuale e personalizzata, diventa un ambito in cui la libertà di scelta della professione è una realtà: “Sebbene anche ai giorni nostri non di rado i medici sono figli di medici e i contadini provengono da famiglie contadine, le barriere più evidenti sono state in gran parte abbattute. Siamo entrati in un’epoca in cui il lavoro è diventato una scelta personale”18. Questa visione positiva dell’evoluzione del lavoro viene relativizzata, nello stesso saggio, dai limiti dell’alienazione e dell’obbligo e dalla possibilità sempre presente di inversioni di tendenza e radicali cambiamenti.
Sempre in ambito anglosassone, si è sviluppato il dibattito specifico attorno al rapporto tra lavoro flessibile e questione dell’identità. Si va da chi sottolinea la crescente «fluidità» delle identità individuali in funzione della accresciuta mutevolezza del contesto lavorativo ed extralavorativo19 a chi sostiene che la diffusione del lavoro instabile minerebbe radicalmente la capacità di ricomporre i frammenti delle varie vicende lavorative in un coerente percorso professionale e di identità, causando una vera e propria «corrosione della personalità (character)»20 nei soggetti coinvolti.
Nella realtà l’evoluzione del lavoro verso la flessibilità ha effetti ambivalenti sulle dinamiche di definizione dell’identità. Sono individuabili a questo proposito due categorie di occupati con un tipo di contratto atipico: chi è soddisfatto della propria professione e chi svolge un’attività non corrispondente alle proprie aspettative. I primi, che hanno scelto il proprio lavoro per passione, non sembrano troppo ostacolati nella costruzione della propria identità professionale e sociale dall’instabilità del contratto; sono normalmente collaboratori e hanno modi di rapportarsi alla flessibilità non uniformi: alcuni aspirano ad essere assunti come dipendenti e vedono l’attuale situazione contrattuale come un prezzo da pagare per fare il lavoro che hanno scelto, altri apprezzano i margini di autonomia offerti dai contratti di collaborazione. Le persone non soddisfatte del proprio posto di lavoro possono utilizzare l’instabilità per limitare l’investimento di sé e per continuare ad identificarsi non con la professione attuale ma in funzione del progetto o dell’occupazione futura. Questa strategia di attesa risulta avere un senso solo se è in funzione di una transizione verso un progetto concreto di lavoro maggiormente rispondente alle aspettative21; se invece si basa su una vaga prospettiva di miglioramento la sua efficacia diminuirà, fino ad essere sospesa e dar luogo a frustrazione e disagio, se le speranze di miglioramento sono molto ridotte. Inoltre la scelta di utilizzare l’instabilità per evitare di identificarsi con il lavoro sgradito e come attesa di un futuro lavorativo migliore, se eccessivamente prolungata, diviene problematica e può davvero produrre quella «corrosione della personalità» e quella frammentazione che impedisce la percezione armonica della propria identità professionale.
La questione dell’identità è legata strettamente a quella del significato del lavoro. Il lavoro, nella prospettiva del senso, può essere analizzato sotto tre categorie: il lavoro come occupazione, il lavoro come carriera, il lavoro come vocazione.
“Il lavoro compreso come occupazione significa separazione dell’opera dal lavoratore e riduzione a mezzo di scambio per accumulare denaro da poter utilizzare per soddisfare bisogni e consumare beni”22, per cui il lavoro avrebbe una motivazione puramente estrinseca legata al reperimento del denaro necessario ai consumi. Questa categoria è esclusivamente economica e il presupposto su cui si basa (si lavora solo per soldi) è errato: “in realtà le persone lavorano anche nel volontariato, e i disoccupati sono depressi e la loro vita perde significato, anche se ricevono sussidi statali. A questo argomento si risponde che ciò è irrilevante per l’analisi economica”23.
La seconda categoria è la carriera: “essa traccia il progresso delle persone che lavorano attraverso i loro risultati e avanzamenti in una occupazione particolare”24. Il lavoro come carriera (concetto ampliamente utilizzato dalla scuola delle «risorse umane») implica delle soddisfazioni non più solo materiali ed estrinseche ma anche intrinseche e psicologiche (posizione sociale, prestigio, senso di competenza e di potere): “l’interesse centrale è accrescere la soddisfazione dei lavoratori facendo crescere la loro autostima, che fa aumentare anche la produttività”25.
“La terza categoria è il lavoro come vocazione: connette il significato del lavoro con l’immediato e ultimo significato della vita personale”26. A differenza delle categorie precedenti, questa non circoscrive l’opera dell’uomo alla sfera individuale e a quella del puro soddisfacimento dei bisogni, ma, trascendendo il bene prodotto e il soggetto produttore, lega la singola persona alla comunità facendola operare avendo come obiettivo il bene comune. La motivazione e la soddisfazione del lavoro fa riferimento all’effetto umanizzante del contribuire alla costruzione della società e del trovare il proprio posto all’interno di essa.
La categoria di vocazione, di mestiere vissuto come percorso coerente all’interno della vita e come contributo alla propria comunità, apre al concetto di «lavoro significativo», dove il significato della propria opera professionale supera la frammentazione ed è in rapporto con il senso della propria vita. Il «lavoro significativo» dovrà allora essere non solo “una dimensione dell’istituzione impresa”, ma anche “una parte della vita individuale e della vita collettiva”27 e, in quanto tale, poter integrarsi nella storia della persona e nella sua identità.
C’è da chiedersi allora come si possa parlare di «lavoro significativo» in un contesto di instabilità in cui sono presenti situazioni come quella riportata di seguito, nella quale, oltre a molte delle questioni già trattate, si pongono dei “problemi nel recupero della capacità narrativa, cioè nella ricomposizione delle esperienze di lavoro in un percorso coerente che abbia un senso”28:
“Sono arrivata al lavoro interinale per mancanza di chiarezza su quello che volevo fare. Dopo la laurea in legge ho cominciato a fare il praticantato per vedere com’era il lavoro. Poi però non ho passato l’esame di stato. Allora ho cercato un lavoro per rendermi economicamente autonoma dalla famiglia. Ho iniziato a fare quello che il mercato offriva. Prima con un contratto di collaborazione nel settore delle assicurazioni. Ti danno un contributo iniziale a titolo di apprendimento e poi premi sulle vendite delle polizze. […] Ci ho provato ma non riuscivo a chiudere i contratti. Allora mi sono data al lavoro interinale. Prima ho lavorato come operaia in una fabbrica di confezioni. Un lavoro pulito, non male e ho guadagnato anche abbastanza bene. È stata un’esperienza brevissima, loro volevano persone giovani e poi ero laureata e non andavo bene. Dopo due rinnovi mi hanno lasciato a casa. Poi ho fatto tre mesi come impiegata all’Ospedale di Legnano. Lavoro amministrativo. Mi sono trovata molto bene ma il contratto dopo 3 mesi è finito. Poi ho fatto un corso del Fondo sociale europeo di tre mesi che doveva aprire delle porte nel mondo del turismo. Era previsto che poi ti offrissero degli stage ma non è successo, e quindi non c’è stato nessuno sbocco. Ho imparato delle nozioni nuove, soprattutto competenze informatiche ma poi non ho potuto usarle. Poi un’altra agenzia mi ha offerto di lavorare all’ufficio contenzioso della Omnitel a Milano. È stata un’esperienza interessante ma umanamente difficile perché sono stata vittima di mobbing. […] Comunque tutto serve e poi mi ha fatto guadagnare qualche cosa in un momento in cui avevo bisogno di guadagnare. Poi ho fatto per una ventina di giorni, per un’altra agenzia, un lavoro al telefono. Poi è uscito un concorso che mi interessava quindi ho lasciato per mettermi a studiare a tempo pieno. Mentre preparavo questo concorso un’agenzia mi ha offerto il lavoro che sto facendo attualmente e che è il più corrispondente alle mie aspettative anche se non è un posto da laureata. Sto lavorando all’ufficio legale del Comune di Legnano. Con un livello di impiegata diplomata però comunque mi faccio una buona esperienza. Loro sono contenti e vorrebbero rinnovarmi di nuovo il contratto ma ci sono vincoli a questo proposito per gli enti pubblici. Forse mi fanno rientrare nei loro concorsi”29.
4.3 Famiglia e vita di coppia
L’ultimo ambito vitale sul quale si analizzeranno le conseguenze dell’evoluzione del mercato del lavoro sarà la famiglia e la vita di coppia30 (e quindi i possibili influssi sulla natalità).
Il primo elemento emerso, anche in termini cronologici, è il ruolo della famiglia come protezione contro il rischio da lavoro instabile. Tale ruolo, ricoperto anche in passato a tutela dei propri membri in difficoltà, ha oggi funzione di supplenza nei confronti del sistema di welfare italiano che non contrasta adeguatamente la diminuzione di protezione e la vulnerabilità del lavoratore spesso connessa ai contratti atipici. Quindi, “se ci si limita a osservare la situazione attuale, il ruolo della famiglia – rappresentata dai genitori o dal partner – sembra funzionare abbastanza bene come rete di protezione contro i problemi di tipo economico connessi all’instabilità del lavoro”31, capace di ammortizzare la gran parte dei costi connessi alla precarietà occupazionale e all’insicurezza economica. Non altrettanto si può dire per i costi psicologici: soprattutto i soggetti privi di apprezzabili possibilità di miglioramento della situazione spesso vivono con molta frustrazione la necessità di dover dipendere dai genitori o da altri membri del nucleo famigliare nonostante l’avvenuto ingresso nel mondo del lavoro e la conseguente aspettativa di autonomia economica. Inoltre, se attualmente la famiglia sembra essere efficace almeno sul piano del sostegno economico, in futuro questa sua efficacia potrebbe venir meno: “i mercati del lavoro richiedono flessibilità e creano insicurezza e la famiglia, fonte da sempre di supporto sociale in tutte le situazioni in cui il mercato «fallisce», potrebbe a sua volta fallire, in quanto caratterizzata da sempre maggiore instabilità”32. Tali rischi sono provocati da due ordini di fattori, uno endogeno al legame di coppia (con tendenze alla flessibilità – provvisorietà analoghe a quelle del mondo del lavoro), l’altro provocato dall’influenza delle dinamiche occupazionali sulla vita famigliare. Il primo fattore è l’instabilità propria dei legami famigliari attuali evidente nell’aumento dei divorzi, delle separazioni e delle convivenze, oltre che dai tentativi ricorrenti di creare nuove figure di coabitazione analoghe alla famiglia … ma più flessibili33! Il secondo fattore di crisi è dato dalle conseguenze sulla famiglia provocate dai processi in atto nel mercato del lavoro. Percepibili già ora sono i rischi di instabilità e i nuovi problemi nello svolgimento dell’attività di cura e di costruzione dei rapporti famigliari; più potenziale e spostata in un futuro non troppo lontano la considerazione che, con la prevista (e da molti auspicata) maggior diffusione dei contratti atipici (nel caso rimanessero all’attuale livello di precarietà), diminuirebbero sensibilmente le famiglie in grado di sostenere finanziariamente i propri membri in difficoltà. Infatti, con l’instabilità o flessibilità cronica e l’indebolimento delle capacità di programmazione, si assottigliano le possibilità degli attuali figli di raggiungere l’indipendenza e di costituire un nuovo nucleo famigliare o almeno di costituire una nuova famiglia in grado di sostenere in futuro i propri parenti con posti di lavoro precari. Il sistema di protezione sociale italiano, quindi, si sta rendendo sempre più dipendente dall’azione di supplenza delle famiglie nei confronti di un welfare in fase di alleggerimento e deregulation, ma, nello stesso tempo, sta creando le condizioni per il suo crollo.
Le scelte più importanti riguardanti la vita famigliare, matrimonio e figli, sono frenate non solo dalla vulnerabilità economica, “ma anche dalla inconciliabilità tra il percorso professionale dei singoli e il ciclo della coppia che si basa sulla formazione, il rafforzamento e lo sviluppo della vita a due”34. La precarietà del lavoro favorisce, sia per le sue conseguenze materiali che per la mentalità che la supporta (e che si trasferisce al contesto extralavorativo), la flessibilità della vita di coppia: spinge infatti verso scelte provvisorie e a basso tasso di impegno, come la convivenza o il procrastinarsi a tempo indeterminato del tempo del fidanzamento, del modello «due cuori e due capanne». La convivenza viene vissuta spesso come tempo di sperimentazione in vista del matrimonio in un futuro non determinato, meno di frequente come “comodo rifugio quando la precarietà impedisce di formare una famiglia tradizionale”35, siano essi impedimenti economici seri o necessità di aspettare in attesa di un progresso nel percorso lavorativo portatore di uno status di stabilità percepito come coerente con la scelta coniugale. In questi casi alcuni elementi, come l’arredamento dell’abitazione (molto raramente di proprietà), rivelano il carattere di provvisorietà e di limitato investimento della scelta: “i conviventi non sono mai proprietari dell’abitazione in cui vivono. E così la arredano spendendo meno denaro, vi investono poco in termini affettivi, attendono il passo decisivo del matrimonio”36. Nel caso di coloro che non dimorano sotto lo stesso tetto, la meta della vita comune non sembra essere sempre un obiettivo da raggiungere ad ogni costo, anche quando uno dei due o entrambi abitano non più con i genitori ma da soli. Tra i molti fattori che si oppongono al difficile distacco dal nido famigliare o dall’autonomia pesano, oltre a quelli culturali ed economici, anche l’insicurezza nel discernimento sul futuro coniuge, causata dalla difficoltà di elaborazione di un percorso identitario, innanzitutto proprio ma anche dell’altra persona. Tali ostacoli derivano, quando non si rilevano problemi di frammentazione anche in altri campi, dalla obiettiva problematicità di identificazione dello status delle reciproche posizioni professionali (magari snobbate dall’ideologia dell’amore romantico, ma importanti in quanto parte della persona quanto altri elementi). Il periodo della sperimentazione e della formazione della coppia, molto flessibile, aperto, modellato secondo le esigenze del momento, è quindi quello che più rispecchia l’atipicità del mondo lavorativo: “Le concatenazioni della vita di coppia non seguono una traiettoria precisa, come accadeva una volta, ma producono un puzzle imprevedibile di esperienze attorno alle quali i partner definiscono di volta in volta, con visioni differenti o contrastanti, il senso e i significati di costituire o non costituire una coppia”37.
Nel contesto generale della denatalità in Europa, particolarmente accentuata in Italia, nazione dal modello di fecondità ridotta e tardiva, il lavoro precario introduce alcuni impedimenti riguardo alla procreazione: “l’instabilità lavorativa e l’incertezza dei redditi; le difficoltà nella cura e nell’educazione dei figli, soprattutto la variabilità e l’imprevedibilità nella divisione dei ruoli tra sfera domestica ed extradomestica cui non si riesce a far fronte con l’acquisizione di servizi sul mercato (perché troppo cari) o con l’assistenza dei servizi sociali (perché poco presenti e scarsamente orientati alle politiche famigliari)”38. Eppure, di fronte a questi freni, a cui si aggiunge il modello di uomo flessibile in carriera, vero self-made-man impegnato a non lasciarsi sfuggire le miriadi di occasioni per progetti individuali ambiziosi, molte coppie mettono al mondo un figlio che diventa il fulcro attorno cui viene costruito il riferimento meno instabile per l’identità dei soggetti che divengono genitori. Il figlio diventa l’elemento che produce non solo un rafforzamento e un senso di stabilizzazione nella sfera affettiva della relazione, ma anche nel maggior senso di unione e dipendenza reciproca sul piano del sostentamento economico della famiglia. Il rapporto di filiazione sostituisce il matrimonio e/o l’indipendenza economica come segno di passaggio dall’età giovanile a quella adulta e, in molti casi, rappresenta l’unico elemento davvero irreversibile nella vita dei due genitori39. Il difetto di queste dinamiche è l’accentuazione nelle coppie giovani e flessibili della dimensione del «puerocentrismo narcisistico», dove le aspettative di realizzazione personale, limitata da un tragitto professionale socialmente poco riconosciuto e da una relazione di coppia sempre da rinegoziare da capo, vengono investite sul ruolo di genitori e quindi sul figlio.
Un aspetto particolarmente influente sulla vita famigliare è la flessibilità degli orari caratteristica del lavoro atipico. Infatti “uno dei cardini principali su cui si forgia il legame di coppia è rappresentato dal tempo che si passa insieme, così come dal significato che ciascuno associa ai vari momenti e attività delle giornata e contemporaneamente alla cristallizzazione del passato comune in una serie di immagini e rappresentazioni personali della storia di coppia”40, ma tanto la scarsa quantità di tempo extralavorativa (“di fatto può accadere che sia richiesto un orario simile a quello di un lavoratore dipendente, con la possibilità di sforarlo. Spesso si superano, anche di parecchio, le 40 ore settimanali”41) quanto, soprattutto, l’estrema variabilità e il frequente “prolungarsi inatteso del lavoro oltre i tempi programmati il giorno prima”42 minano la possibilità di stabilire dei punti fermi nelle priorità e nel tempo da dedicare alla famiglia. Le dinamiche della flessibilità arrivano ad accentrare attorno al lavoro non solo il tempo (“per queste persone la settimana è totalmente consacrata al lavoro con brevissime pause che finiscono per essere dedicate al sonno, alla cura di sé e al minimo necessario per gli impegni famigliari”43), ma anche la coscienza, il pensiero e l’immaginazione. Questo perché “nelle situazioni di lavoro descritte le conoscenze tecniche ed i saperi professionali valgono solo in combinazione con uno stato di spirito, una predisposizione, una disponibilità illimitata agli aggiustamenti, alle mutazioni, agli imprevisti, in poche parole con quella disposizione caratteriale che gli anglosassoni definirebbero eagerness: entusiasmo per il lavoro, sollecitudine a servire, zelo. Puro coinvolgimento”44. Almeno finché si lavora … ma anche quando i contratti arrivano a scadenza e non c’è subito il successivo, il lavoro resta centrale e spesso esclusivo nei discorsi e negli umori famigliari: “specialmente i collaboratori e le collaboratrici passano rapidamente da periodi di «iperlavoro» a periodi di breve disoccupazione ed inattività con una conseguente situazione di insofferenza del quotidiano”45. La flessibilità di orari determina un cambiamento nella concezione e nelle modalità di uso del cosiddetto tempo libero, imponendo una continua rinegoziazione di tempi e luoghi: “tra una lista fittissima di impegni e una promessa di provare a rientrare a casa in tempo, si finisce per ritrovarsi assieme in orari insoliti o in luoghi diversi da quelli previsti46. Proprio lo «stare assieme» deve essere trattato, negoziato, concordato e proprio per questo sempre e di nuovo disdetto”47. Fino a porre dei seri ostacoli alla vita coniugale, come in questa coppia a cui capita di non vedersi per diversi giorni: “il guaio è che lei ha sempre i turni dalle 18.00 alle 24.00. La mattina io esco presto per andare al lavoro. Se tutto va bene ci metto almeno un’ora per arrivare in magazzino. Quindi mi alzo alle sei del mattino, quando mia moglie dorme ancora. Le poche volte che riesco a smontare alle 17.00 – 17.30, traffico permettendo arrivo a casa alle 19.00. Mia moglie è già andata via da un pezzo”48. È da sottolineare come sia diversa la percezione della flessibilità degli orari a seconda delle tappe di crescita della coppia: la vita a due prima del matrimonio (sia essa vissuta da fidanzati o vi sia una eventuale convivenza more uxorio) si coniuga positivamente con l’imprevedibilità dei ritmi del lavoro atipico; una volta sposati, soprattutto se con figli, la flessibilità del lavoro diventa un problema per la gestione dei tempi.
1 S. Zappalà, G. Sarchielli, M. Depolo, Il lavoro senza protezione: stili e progetti di vita di lavoratori contingenti, in Donne e uomini nel mercato del lavoro atipico, pp. 117-135, p. 130.
2 A.C. Bosio, E. Lozza, G. Graffigna, Lavoro precario e precarietà del lavoro: un solo fenomeno?, in Donne e uomini nel mercato del lavoro atipico, pp. 57-75, p. 57.
3 S. Zappalà, G. Sarchielli, M. Depolo, Il lavoro senza protezione, in Donne e uomini nel mercato del lavoro atipico, p. 131.
4 P. Argentero, F. Dal Corso, G. Vidotto, Soddisfazione professionale e lavoro temporaneo, in Donne e uomini nel mercato del lavoro atipico, pp. 41-55, p. 42.
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 G. Fullin, Vivere l’instabilità del lavoro, p. 129.
8 Significativa la testimonianza di una “lavoratrice interinale impiegata come segretaria amministrativa, 46 anni”: “Ho accettato questo lavoro anche perché ormai il lavoro flessibile è il lavoro del futuro. Finalmente si sta cominciando a capire che liberalizzando si crea lavoro. Bisogna cambiare completamente mentalità, e il lavoro interinale è già un buon passo, infatti credo che abbia successo e ne avrà sempre di più in futuro. […] Dobbiamo guardare all’America, smetterla di pensare che lo Stato ci debba dare un lavoro sicuro. Sono le persone che devono farsi avanti sul mercato”. In Ibi, p. 131.
9 Cfr. la testimonianza di un’ “impiegata irregolare presso una panetteria, 24 anni”: “Io non mi vedo in un posto da qui fino alla fine dei miei giorni, anche perché ormai ci si può e ci si deve spostare da una cosa all’altra. Questo ti provoca un’angoscia maggiore ma anche un arricchimento. Però devo essere realista, non ci credo molto ad un lavoro da 8 ore, un lavoro in regola, fisso … è strano, non saprei neanche io dire perché; da un lato c’è l’aspetto ideale, mi piacerebbe, dall’altro c’è il realismo che mi dice che anche quando sarò laureata continuerò a fare lavori a ritenuta d’acconto come adesso”. In Ibi, p. 135.
10 S. Zappalà, G. Sarchielli, M. Depolo, Il lavoro senza protezione, in Donne e uomini nel mercato del lavoro atipico, p. 132.
11 Testimonianza di una “lavoratrice interinale impiegata come commessa, 46 anni” in G. Fullin, Vivere l’instabilità del lavoro, p. 133.
12 Testimonianza di una “collaboratrice presso una società di traduzioni, 30 anni” in Ibi, p. 136.
13 “Per comprendere i modi in cui i lavoratori si pongono di fronte all’instabilità e soprattutto per spiegare l’atteggiamento di chi non appare particolarmente preoccupato dei rischi ad essa connessi è importante considerare il crescente rilievo che il tema dei lavori instabili ha nei giornali e nella televisione, che da tempo vanno dichiarando che «il posto fisso non esiste più» e che bisogna essere flessibili per trovare lavoro. Titoli come «solo la flessibilità crea occupazione» battono di gran lunga, in frequenza, qualsiasi altro titolo sui problemi del lavoro nei quotidiani italiani come nei convegni”. Ibi, pp. 136-137.
14 S. Zappalà, G. Sarchielli, M. Depolo, Il lavoro senza protezione, in Donne e uomini nel mercato del lavoro atipico, p. 132.
15 Significativa a questo proposito la testimonianza di un “istruttore di nuoto con contratto di collaborazione, 24 anni”: “Spero in futuro di continuare a fare questo lavoro però vorrei altri tipi di garanzie. Non solo a livello di soldi … Ad esempio, io mi sono rotto un mignolo un mese fa e siccome avevo bisogno di soldi sono andato a lavorare egualmente. Ti fa un po’ male, con le scarpe … però se avevano un minimo di dignità mi dicevano di stare a casa almeno 10 giorni e me li pagavano come se fossi andato a lavorare. E invece queste cose non succedono. Se mi ammalo non sono pagato. Non dico di stare in malattia due mesi ma almeno una settimana dieci giorni avrebbero potuto darmela, in un anno”. In G. Fullin, Vivere l’instabilità del lavoro, p. 124.
16 Ibi, p. 126.
17 Si cita a titolo esemplificativo il seguente testo, che si muove nell’ambito della pedagogia dello sviluppo e della sociologia: M. Csikszentmihalyi, B. Schneider, Diventare adulti. Gli adolescenti e l’ingresso nel mondo del lavoro, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002.
18 Ibi, pp. 9-10.
19 È la posizione, già analizzata, di Z. Bauman.
20 Cfr. R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del capitalismo sulla vita personale, Milano, Feltrinelli, 1999 (più significativo il titolo dell’edizione originale del 1998 in inglese: The corrosion of character. The personal consequences of work in the new capitalism).
21 Il caso classico, di strategia di attesa e di limitato investimento di identità, è quello degli studenti universitari che svolgono lavori occasionali: “è diverso essere studenti, perché fintanto che studi ti senti che puoi fare tutto, anche magari dei lavori stupidi. Ad esempio un’estate coordinavo del personale in un bar, adesso non so se lo farei. Quando sei laureata pensi di non poter perdere tempo a fare delle cose così per sfizio. Mentre studi lo vivi proprio in maniera diversa, forse con più superficialità”. Dalla testimonianza di una “lavoratrice interinale impiegata come responsabile amministrativa, 27 anni” in G. Fullin, Vivere l’instabilità del lavoro, p. 175.
22 G. Manzone, Il lavoro tra riconoscimento e mercato, p. 32.
23 Ibidem.
24 Ibi, p. 33.
25 Ibidem.
26 Ibidem.
27 Ibi, p. 42.
28 G. Fullin, Vivere l’instabilità del lavoro, p. 186.
29 Testimonianza di una “lavoratrice interinale presso il Comune di Legnano, 32 anni”. In Ibi, p. 189.
30 “In Europa i due terzi della forza lavoro sono costituiti da persone sposate. Ciò significa che la presenza nel mercato del lavoro e la condizione occupazionale, l’orario di lavoro e la traiettoria professionale coinvolgono non soltanto il singolo individuo, ma la coppia”. L. Salmieri, Coppie flessibili, p. 95. Su questi temi è fondamentale anche il nono rapporto del Centro Internazionale Studi Famiglia che è dedicato, appunto allo studio dei reciproci influssi tra gli ambiti famigliare e lavorativo: CISF, Famiglia e lavoro. Dal conflitto a nuove sinergie, 9° rapporto sulla famiglia in Italia, a cura di P. Donati, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2005.
31 G. Fullin, Vivere l’instabilità del lavoro, p. 103.
32 Ibi, p. 104.
33 “Un tempo istituzione monolitica nella quale si entrava per tutta la vita, la coppia è infatti divenuta anch’essa, per forza di cose, un sistema flessibile, fatto di continui aggiustamenti. Non più scontata nella sua struttura interna, nei suoi rapporti interni ed esterni, richiede una costante manutenzione e ricostruzione degli equilibri legati alla dinamica della vita quotidiana dei singoli e all’importanza dei progetti e delle scelte di fondo. La vita di coppia sarebbe oggi più che in passato caratterizzata da un processo costante di verifica e negoziazione che ne accentua il carattere di reversibilità, oltre che di instabilità, al di là delle istituzioni disponibili del divorzio e della separazione. […] Insomma, la vita a due è divenuta di per sé precaria ed instabile, continuamente soggetta a negoziazioni e ridefinizioni. Un po’ come avviene per il lavoro”. L. Salmieri, Coppie flessibili, pp. 101-102.
34 Ibi, p. 114.
35 Ibi, p. 198.
36 Ibidem.
37 Ibidem.
38 Ibi, p. 153. Cfr. anche la testimonianza di una “collaboratrice presso un consorzio di servizi turistici, 27 anni, convivente, senza figli”: “Finché continua [contratti di collaborazione rinnovati di anno in anno] se voglio fare un figlio, non lo devo chiedere al mio compagno, ma al mio capo. Decide lui se posso farlo. Devo andare da lui e chiedere se alla fine di un lavoro mi lascia sei-otto mesi per stare a casa e quando torno ritrovo computer e scrivania”. In ibi, pp. 163-164.
39 “Il patto di filiazione è una relazione non negoziabile: tra gli elementi della triade «coppia-lavoro-figlio», soltanto l’ultimo offre la possibilità di una riconoscibile transizione alla vita adulta”. Ibi, p. 156.
40 Ibi, p. 122.
41 Ibidem.
42 Ibidem.
43 Ibi, p. 123.
44 Ibidem.
45 Ibidem.
46 Significativa la testimonianza di un “collaboratore per un’azienda di informatica, 32 anni, sposato, senza figli”: “La mattina ci lasciamo senza sapere né quando, né come ci vedremo. Può finire che a cena mangiamo assieme, da soli o addirittura ognuno fuori per conto proprio”. In ibi, p. 136.
47 Ibidem. Cfr. anche la testimonianza di un “collaboratore per un’agenzia di assicurazioni, sposato, con un figlio di 3 anni”: “è strano. Io e mia moglie finiamo per passare quasi tutto il tempo che stiamo assieme a decidere su chi deve fare cosa e per quale motivo è il suo turno. È un’eterna contrattazione. Abbiamo provato a stabilire un minimo di regole. Ma con i vari scombini del lavoro. Era impossibile. Discutiamo continuamente per chi è giusto rinunciare a qualcosa. Questo problema che manca il tempo ci spinge sempre a litigare”. Ibidem.
48 Testimonianza di un “collaboratore, geometra presso una società di progettazione architettonica, 29 anni, sposato, con un figlio” in ibi, p. 137.