da Vinonuovo.it, «vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi» (Lc 6,36).
Nell’omelia del 25 ottobre 2025, in san Pietro, a Roma, il cardinale Burke ha affermato:
“La Messa Pontificale di oggi è celebrata secondo la forma più antica del Rito Romano, l’Usus Antiquior. La Chiesa celebra il 18º anniversario della promulgazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, con il quale Papa Benedetto XVI ha reso possibile la celebrazione regolare della Messa secondo questa forma, in uso sin dai tempi di san Gregorio Magno.”
Un’affermazione del genere, a una lettura attenta, rivela alcune inesattezze storiche e implicazioni teologiche fuorvianti, che meritano di essere chiarite.
1. “La forma più antica del Rito Romano”
Definire l’Usus Antiquior come la forma più antica del Rito Romano è storicamente improprio. La cosiddetta “forma tridentina” della Messa — quella del Missale Romanum di san Pio V (1570), riformata poi da Giovanni XXIII nel 1962 — non risale affatto ai tempi di san Gregorio Magno (fine VI secolo). Essa rappresenta piuttosto l’esito di una lunga evoluzione liturgica: un rito romano del tardo Medioevo, filtrato dalla teologia scolastica e dalla spiritualità postridentina. Il Messale di Pio V codificò l’uso romano del XVI secolo, epurandolo di varianti locali e uniformandolo dopo il Concilio di Trento. Non è, dunque, la “liturgia gregoriana”, ma una sua fase storica, segnata da un diverso contesto ecclesiale e culturale. In realtà, nessuna forma liturgica “ferma nel tempo” può dirsi la più antica, poiché la liturgia è, per sua natura, un organismo vivo, che cresce, si adatta, si arricchisce. L’“antichità”, nella liturgia, non è una categoria archeologica, ma teologica: ciò che è davvero antico è ciò che custodisce la fede apostolica, non ciò che ripete gesti e formule del passato.
2. “In uso sin dai tempi di san Gregorio Magno”
Anche l’identificazione dell’Usus Antiquior con la liturgia di san Gregorio Magno non regge sul piano storico. Il cosiddetto Sacramentario Gregoriano (VII secolo) contiene alcune preghiere eucologiche che confluiranno nei secoli successivi nel Messale Romano, ma la struttura della Messa, i testi e i riti del Messale del 1962 sono il frutto di stratificazioni medievali e moderne: il doppio Confiteor, le preghiere all’offertorio, il Canone romano in forma fissa, le rubriche minuziose di epoca barocca. Attribuire tutto ciò a Gregorio Magno significa proiettare a ritroso una forma tarda, scambiandola per origine.
È una distorsione che finisce per sostituire la storia reale con una mitologia liturgica, dove “antico” equivale a “autentico”, senza più criteri di discernimento ecclesiale.
3. “La Chiesa celebra l’anniversario di Summorum Pontificum”
Anche questa formulazione risulta ambigua. La Chiesa universale non celebra alcun anniversario del Summorum Pontificum; si tratta piuttosto di iniziative promosse da gruppi o associazioni legate all’uso preconciliare. L’attuale orientamento del Magistero — espresso da papa Francesco con il Motu proprio Traditionis custodes (2021) e con la lettera ai vescovi che lo accompagna — ha chiarito che i libri liturgici riformati da san Paolo VI e san Giovanni Paolo II costituiscono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano. L’uso del Messale del 1962, pertanto, è oggi una concessione circoscritta, subordinata al discernimento del vescovo diocesano, e da vivere in spirito di comunione ecclesiale, non come gesto identitario o oppositivo.
4. Una questione di forma mentis
Dietro la retorica dell’“antico” si cela spesso una concezione statica della Tradizione, intesa come semplice conservazione di forme del passato, più che come trasmissione vitale del mistero di Cristo. Ma, come insegna il Concilio Vaticano II, la vera Tradizione “progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo” (Dei Verbum). La riforma liturgica non ha introdotto una “nuova Messa”, ma ha restituito la Messa alla sua intelligibilità ecclesiale: alla partecipazione del popolo di Dio, alla centralità pasquale, alla trasparenza sacramentale del mistero celebrato. La continuità non si gioca nella ripetizione delle forme, ma nella fedeltà al significato teologico che esse intendono esprimere.
L’affermazione del cardinale Burke confonde l’antichità con l’archeologia, la memoria con la nostalgia, la Tradizione con la conservazione. L’Usus Antiquior non è la “forma più antica” del Rito Romano, né risale a san Gregorio Magno, né rappresenta oggi l’espressione ordinaria della preghiera della Chiesa. Essa rimane una possibilità concessa, ma non il cuore pulsante della liturgia cattolica riformata, che è — e rimane — quella del Missale Romanum di Paolo VI: una liturgia in continuità viva, reale e dinamica con tutta la storia della fede celebrata.
Concludo con un passo di Giovannino Guareschi, popolarissimo scrittore e vignettista, che fu — a mio parere — una delle penne più lucide e penetranti del cattolicesimo italiano del Novecento. Certamente non può essere annoverato tra i sostenitori del Concilio Vaticano II, e men che meno della riforma liturgica che ne seguì. Eppure, in una delle sue pagine più ispirate, egli fa dire al Cristo parole che suonano come un piccolo trattato di teologia della riforma:
“In tutte le altre chiese della diocesi, l’altare era stato sostituito da quella che don Camillo, con scarso rispetto, chiamava ‘tavola calda’: ma nella chiesa di don Camillo niente era stato ancora cambiato (…)
«Signore» gridò con angoscia don Camillo spalancando le braccia «perché dovrei distruggere tutto?»
«Non distruggi niente. Tu cambi la cornice al dipinto, ma il dipinto rimane lo stesso. O, per te, è più importante la cornice che il quadro? (…) Don Camillo: questi stucchi, questo legno dipinto, questa porporina, queste antiche parole non sono la fede».
«Signore» replicò umilmente don Camillo «però sono la tradizione, il ricordo, il sentimento, la poesia».
«Tutte bellissime cose che non hanno niente a che vedere con la fede. (…) La vera umiltà è rinunciare alle cose che più si amano».
In queste righe, Guareschi — forse suo malgrado — coglie l’essenza del cammino liturgico della Chiesa: la fede non si identifica con la fissità delle sue forme, ma le attraversa, le purifica, le rigenera. La vera umiltà ecclesiale consiste proprio in questo: nel saper lasciare che lo Spirito rinnovi la cornice, perché il quadro — Cristo stesso — possa risplendere con sempre nuova bellezza.
Giuseppe Costa