
Sergio Paronetto (Morbegno, 14 gennaio 1911 – Roma, 20 marzo 1945) è stato un economista e politico italiano. Manager industriale ed intellettuale, tra i più influenti ispiratori del moderno pensiero sociale cristiano, Paronetto fu protagonista dell’Azione Cattolica Italiana tra le due guerre, stretto collaboratore di Giovanni Battista Montini e Alcide De Gasperi, sul quale ebbe una decisiva influenza in materia economica, animò a Roma, durante gli anni della seconda guerra mondiale, un cenacolo culturale che raccolse tutti i personaggi più importanti della Resistenza, dell’economia e della politica di allora. Fu il principale ispiratore ed estensore del Codice di Camaldoli.
Per Sergio Paronetto l’ascetica non è una disciplina per eremiti, ma piuttosto il necessario complemento alla vita quotidiana, un allenamento all’azione e all’esercizio dell’impegno civile. «Ascetica dell’uomo d’Azione», che contiene anche il brano che proponiamo, pubblicato per la prima volta nel 1948 su iniziativa di Giovanni Battista Montini (che scrisse anche la prefazione), raccoglie le riflessioni di Paronetto negli anni della Resistenza al fascismo e dei primi sforzi per la rinascita del Paese. Sono scritti lontani da ogni sterile introspezione narcisistica, testimonianza di un’energia spirituale e politica che si nutre di una inesausta ricerca di verità nella pratica quotidiana.
Le indagini, le notazioni, le valutazioni psicologiche sono appassionanti e sono quelle che avvicinano di più alla sostanza umana.
Le più facili, le più infantili, le più appaganti per una intelligenza sostanzialmente superficiale, anche se sottile e apparentemente escavatrice, sono quelle su se stessi. Non è vero che quella del conoscere se stesso sia un’arte difficile. È troppo facile trastullarsi col proprio io, mirarsi nella propria coscienza, guardarsi vivere. Ed è un esercizio sterile, se eccede una misurata e doverosa conoscenza della propria miseria e della propria grandezza.
Io cado – nella cella della riflessione e anche nella violenza dell’azione – in questo stupido vizio, che è al tempo stesso – né il limite è facile a determinare – una intelligente virtù. È, in parte, una tendenza del mio temperamento; è un accenno introspettivo messo sulla mia intelligenza; è un metodo di lavoro e di vita; è una ricerca di serenità; è un caldo amore per l’uomo, per il mio essere uomo; ma è anche un habitus che ho suscitato e coltivato e che, nel suo spesso troppo frondoso sviluppo, è un prodotto e cioè un soggetto della volontà. Che è come dire che può anche essere limitato, contenuto, non voluto.
Posso e voglio occuparmi meno di me e più degli altri. Guardare più l’uomo negli altri, che in me. Tendere a creare un habitus anche nel guardare gli altri. Se questo habitus dovrà sovrapporsi e in parte elidere l’altro habitus di guardare così ossessivamente e permanentemente a me stesso, tanto meglio.
E, per cominciare dalle più umili, e libere, attività psicologiche, cercando di cogliere nella loro enigmatica faccia, nel loro occhio troppo spesso velato, quello che so cogliere nella mia coscienza e nel mio ripiegarmi su me stesso.
Fisso subito un programma, cercando di uccidere tutte le reminescenze letterarie (da Montaigne a Papini): sarebbe un gioco ben istruttivo per me e un esercizio certo non sterile, se riuscissi a fissare un ritratto di Tavolato, di Lino, di Ottolenghi, di Reds, di Carli, di Men., di Beneduce, di Vittorino, di decine di altre persone con le quali la mia vita è intrecciata. Ma stasera ho sonno.
[11 X 1940]