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Nella sua encinclica Rerum novarum, Leone XIII non solo difende il diritto alla proprietà privata come pilastro fondamentale, ma collega questo pilastro alla «famiglia o società domestica», che definisce «vera, e anteriore a ogni civile società». Di conseguenza, «è assolutamente necessario» che essa goda di «diritti e obbligazioni» proprie e «indipendenti dallo Stato».
Infatti, se i poteri pubblici rappresentassero un danno anziché un aiuto per le famiglie, si tratterebbe di una vera «usurpazione dei loro diritti» e una tale società sarebbe «degna di riprovazione». E non solo: «si commette grave ingiustizia contro la famiglia, quando si si spinge l’arbitrio del potere civile fin nell’intimità del focolare domestico».
Stabilito questo limite oltre il quale si cade nell’«ingiustizia», Leone XIII sostiene che la soluzione affinché il conflitto sociale «cessi ovunque» spetti alla Chiesa. Essa, infatti, «desidera ardentemente che le classi [sociali] si uniscano tra loro» e agiscano «con giustizia e carità».
È in questo orizzonte che il Papa individua il punto di partenza: affinché venga rispettata la condizione umana, «non si può concepire una società che si fondi su un’assoluta uguaglianza fra i suoi membri». Poiché «per natura esistono tra gli uomini molte e grandi differenze» – nei talenti come nelle condizioni di partenza – e da ciò consegue per natura «una diversa posizione nella società civile e nella fortuna economica». E ciò non è di per sé negativo, perché «la società civile ha bisogno di molteplici e differenti funzioni».
Poiché la maggior parte degli uomini è chiamata a faticare di più (nei campi o in fabbrica) rispetto a chi è già benestante, il Papa accetta tale realtà, riconoscendo che «soffrire è umano» e che «non ci sarà forza né ingegno capaci di eliminare del tutto tali disagi». Anzi, «chi cerca di persuadere i poveri che debbano assolutamente vivere una vita senza fatica, senza miseria e colma di piaceri, li inganna e li illude».
Questo significa che Leone XIII si rassegna all’idea di non poter redimere la classe operaia? Al contrario: accettata la nostra natura disuguale, egli punta all’«armonia», poiché è un gravissimo errore «supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile». Questo è «contrario alla ragione e alla verità». In realtà, si tratta di due classi gemelle che devono «concordare armoniosamente», poiché «l’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale». In definitiva, la concordia «fa la bellezza e l’ordine delle cose». Mentre il contrario «non può dare che confusione e barbarie».
Per la medicina sociale di «unire i ricchi ai proletari», la Chiesa propone una via: «richiamare entrambe le classi al compimento dei rispettivi doveri». Qui il Papa elenca tali doveri, e quelli dei benestanti sono tre volte più numerosi rispetto a quelli dei poveri… A questi ultimi, tra l’altro, si chiede di «non danneggiare in alcun modo il capitale», di «evitare ogni violenza nella difesa dei propri diritti» e di «non fomentare sedizioni». Ai primi, invece, si richiede di «non considerare gli operai come schiavi», di «rispettare la loro dignità di persone», e di «tenere conto del bene delle anime dei proletari», garantendo loro, ad esempio, tempo libero per partecipare alla messa domenicale.
Si specifica inoltre che gli operai non devono essere «sottoposti a un lavoro superiore alle loro forze», con particolare attenzione a donne e bambini. E, naturalmente, che a essi va garantito un salario «giusto» («la giusta mercede»), perché defraudare qualcuno della retribuzione del proprio lavoro «è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio».
Leone XIII lancia poi un chiaro monito ai datori di lavoro («i fortunati del secolo»): siano «avvertiti che le ricchezze non li liberano dal dolore e che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono»; e ricordino «che dell’uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice». Anche se il cammello può ancora passare per la cruna dell’ago… occorre prendere la cosa sul serio: «soddisfatte le necessità e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi». Va cioè ricordato che «c’è più gioia nel dare che nel ricevere».
A chi «non possiede beni materiali», la Chiesa insegna che «innanzi a Dio non è cosa che rechi vergogna né la povertà né il dover vivere di lavoro». Non fu forse Cristo stesso a «farsi povero pur essendo ricco», lavorando accanto a Giuseppe come artigiano? Infine, «per gli infelici pare che Iddio abbia una particolare predilezione poiché Gesù Cristo chiama beati i poveri» e «i deboli e i perseguitati abbraccia con atto di carità specialissima».
Miguel Ángel Malavia