L’anima della “Rerum novarum” /6

da Settimananews.it, la storica rivista di attualità, pastorale, teologia dei dehoniani.

Concludendo il nostro percorso di analisi della Rerum novarum – l’enciclica promulgata da Leone XIII nel 1891, fondamento della Dottrina sociale della Chiesa – rileviamo tra gli aspetti più interessanti il fatto che in un’epoca segnata da profonde tensioni sociali, sull’orlo del collasso, fu un Papa a invocare una riconciliazione che andasse oltre la semplice «amicizia» tra ricchi e poveri, auspicando un’autentica unione fondata sul «fraterno amore». La Chiesa non si limita a indicare la via della guarigione sociale: essa stessa si fa medicina.

Il punto di partenza è chiaro: «Per riformare una società in decadenza è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’essere». Solo così è possibile curare la «corruzione» e promuovere una vera «guarigione». Questo ritorno implica un impegno concreto verso la vita e i costumi cristiani, capaci di contenere quelle due grandi piaghe della modernità che impoveriscono l’uomo anche nell’abbondanza: l’eccessiva ambizione e la sete di piaceri. La vera felicità si trova, piuttosto, nella sobrietà: nel sapersi accontentare di un abito modesto e di una mensa frugale, nel coltivare il valore del risparmio e nel fuggire quei vizi che dissolvono patrimoni, piccoli e grandi.

Un modello di riferimento resta la prima comunità cristiana, dove la carità fraterna era così viva che «i più facoltosi si privavano spessissimo del proprio per soccorrere gli altri; tanto che – come attestano gli Atti degli Apostoli – non vi era tra loro nessun bisognoso». In quella visione si intravede la società ideale: il suo recupero significherebbe sanare i conflitti e prevenire la guerra.

Tuttavia, in una realtà pluralista e istituzionalizzata, è inevitabile interrogarsi sul ruolo dello Stato. È legittimo aspettarsi che da esso possa «sgorgare spontaneamente la prosperità sia della società nel suo insieme, sia dei singoli», perché questo è in fondo il compito proprio della politica e il dovere inderogabile dei governanti. A loro spetta vegliare sul bene comune e sulla giustizia distributiva, senza mai cadere nella tentazione di assorbire l’individuo o la famiglia nel Leviatano statale.

La tutela pubblica, per essere efficace, deve garantire l’ordine e la pace, difendendo con la forza della legge la proprietà privata: nessuno può essere spogliato legittimamente di ciò che gli appartiene. Agli operai, in particolare, si ricorda di non lasciarsi sedurre da false promesse di uguaglianza che si traducono, di fatto, nell’appropriazione indebita dei beni altrui. Il richiamo si fa severo verso coloro che, ispirati da ideologie sovversive, incitano alla violenza di piazza: è dovere dello Stato fermare tali agitatori, proteggere la moralità dei lavoratori e difendere il diritto dei legittimi proprietari.

Non si condannano gli scioperi in quanto tali, ma si mette in guardia da quelle forme in cui violenza e tumulti finiscono per danneggiare sia i padroni che gli stessi operai. Ma l’intervento dello Stato non può fermarsi qui: esso è chiamato anche a porre limiti ai ricchi, garantendo i «beni dell’anima» e tutelando il diritto al riposo nei giorni festivi. Il riposo domenicale, consacrato dalla religione, è visto come un comandamento stesso di Dio: persino nella creazione, «Egli si riposò il settimo giorno». Garantire questa pausa – per la partecipazione all’Eucaristia, per la famiglia e per sé – è una conquista sociale di matrice ecclesiale.

L’enciclica interviene inoltre su altri diritti fondamentali: la limitazione dell’orario lavorativo; la tutela specifica per donne e bambini (in un’epoca in cui persino i più piccoli lavoravano nelle miniere); il diritto a un «giusto salario», formalizzato in un contratto verificabile da un giudice equo; e la necessità di una fiscalità che non annienti la proprietà privata.

Elemento centrale è la promozione delle «società operaie», eredi moderne delle corporazioni medievali, ritenute “estremamente opportune” e titolari di pieni diritti. Fu questo spirito a generare un vasto movimento sindacale cattolico, che continua ancora oggi grazie a realtà come la Hermandad Obrera de Acción Católica (HOAC) o la Juventud Obrera Católica (JOC). Allo Stato si chiede non solo di proteggerle, ma di rispettarne l’autonomia e di non interferire nella loro vita interna.

La conclusione è netta: davanti a «un male già tanto grave (…) il vero e radicale rimedio non può venire che dalla religione». Tutti vengono esortati a «tornare alla vita cristiana». Non si tratta di arroganza confessionale, ma del desiderio profondo che ogni cittadino si impegni con tutte le proprie forze per la salvezza dei popoli, coltivando e diffondendo la carità – regina di tutte le virtù – a ogni livello della vita sociale.

Miguel Ángel Malavia

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