
da Diocesidicomo.it, il sito della Diocesi di Como.
Proponiamo e rilanciamo alcuni materiali legati alla scuola di formazione socio politica svolta in diocesi di Como negli anni passati.
Stefano Zamagni (Rimini, 4 gennaio 1943) è un economista italiano, ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore. Per l’Università di Bologna ha ricoperto numerosi ruoli, tra cui la presidenza della Facoltà di Economia, impegnandosi negli anni soprattutto negli studi sul mondo del no profit, arrivando all’attivazione di uno specifico corso di laurea (“Economia delle imprese cooperative e delle organizzazioni non profit”) Dal 2001 è presidente della commissione scientifica di AICCON (Associazione italiana per la promozione della cultura della cooperazione e del non profit) e tra gli ideatori delle Giornate di Bertinoro per l’economia civile, un momento di approfondimento e dialogo sul ruolo e le attività del Terzo Settore in Italia. Nel 1991 divenne consultore del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, e successivamente membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Il 14 gennaio 2011 presso il centro pastorale Cardinal Ferrari di Como tenne l’incontro “Dall’impresa come merce all’impresa come associazione: la prospettiva dell’economia civile”, di cui pubblichiamo la trascrizione non rivista dall’autore.
Mons. Riva
Continua il percorso della nostra Scuola sociale. Siamo ora nel campo dell’economia, dell’economia civile in particolare. Abbiamo alle spalle la tradizione liberale, che ha sempre faticato a mettere insieme l’elemento economico e quello etico, anche quando l’eticità è stata presentata come istanza importante di solidarietà e relazione (pensiamo all’esperienza dello stato sociale); tutto questo figurava un po’ come qualcosa che doveva ‘rammendare’ gli squilibri che il sistema economico aveva prodotto, dopo però che si erano prodotti. L’economia cioè che divorzia dall’etica: questo corrisponde credo ad una percezione diffusa che abbiamo, e diffusamente, nel mondo del lavoro e dell’imprenditoria, come se questo fosse un mondo greve, livido, duro, dove nessuno regala niente a nessuno, dove la logica dell’accumulo e dell’utile finisce per essere una tenaglia che strozza anche le migliori intenzioni: homo hominis lupus. Questo certo è il volto dell’economia politica, ma da un po’ di tempo (e il Papa nella sua enciclica ci ha molto aiutato) c’è questa nuova figura, che chiamiamo economia civile. L’economia civile vuole incarnare al suo interno delle valenze etiche, relazionali, solidali, non come un segmento a parte, ma come qualcosa che è in grado di contaminare l’intero funzionamento del sistema economico.
Il relatore di questa sera è il prof. Stefano Zamagni, che ringraziamo per essere venuto, per la fatica dello spostamento da Napoli e Benevento. Conosciamo ormai tutti i suoi titoli accademici, è possiamo ormai dire che è anche un amico, e possiamo dirlo con un certo compiacimento, perché è venuto l’anno scorso, è presente quest’anno, lo aspettiamo anche per l’anno prossimo. E’ sicuramente una presenza che ci aiuta e ci introduce da par suo, quale uno dei testimoni più qualificati di questi tempi, più accreditati a livello nazionale ed internazionale, ad entrare nel campo dell’economia civile, della sua profezia e delle sue sollecitazioni.
Prof. Stefano Zamagni
Grazie molte: sono molto lieto di essere con voi. Come ha già detto don Angelo sono stato con voi un anno fa: saluto anche gli amici di Morbegno; don Angelo è un po’ come la vedova di cui parla il Vangelo, che a forza di insistere, il giudice pur di togliersela di torno, ha dovuto accettare e farle giustizia. Il che ha un significato, perché se il Vangelo ci ha raccontato quella parabola è chiaro che va interpretata nella maniera giusta.
Mi è stato assegnato il compito di trattare questo tema del rapporto tra economia civile e attività imprenditoriale, e lo faccio con grande piacere, precisando però che il termine ‘economia civile’ non è stato inventato da me; se ho un piccolo merito è quello di averlo resuscitato, perché l’espressione ‘economia civile’ viene creata per la prima volta nel 1753, anno nel quale l’Università di Napoli istituisce, prima al mondo, la prima cattedra di economia a livello universitario e la cattedra venne battezzata ‘Economia civile’, ed il primo cattedratico fu un abate salernitano, Antonio Genovesi. Il suo libro di testo, su cui si prepararono intere generazioni di studenti, si chiamava “Lezioni di economia civile”. Questa tradizione di pensiero dell’economia civile è durata fino alla fine del ’700 e verrà poi superata da quell’altra impostazione di studio che è quella ancor oggi dominante e che è l’economia politica. L’economia politica è un’invenzione inglese, e Adam Smith è lo studioso a cui leghiamo il suo paradigma. Se fate attenzione, i due termini hanno in comune il sostantivo, mentre la differenza sta nell’aggettivo: politica e civile. Se cercate in un dizionario greco o latino, ‘politica’ deriva da polis, che viene tradotto in latino con civitas, da cui l’opinione secondo la quale dire ‘politica’ e dire ‘civile’ è la stessa cosa, perché in greco e in latino significano la stessa cosa. Questo invece è un errore gravissimo, perché la polis greca era completamente diversa dalla civitas romana, e la differenza sta nel fatto che, mentre la polis greca tendeva ad escludere, la civitas romana tendeva ad includere. Sapete che dalla polis greca erano escluse le donne, perché non potevano partecipare all’attività politica, gli schiavi e gli analfabeti; quindi la polis greca era un modo per raggruppare un’oligarchia o un’èlite. La civitas romana era il contrario: quando i Romani conquistavano un nuovo territorio, estendevano alle persone che abitavano nel territorio conquistato tutti i diritti, e anche tutti i doveri, del cittadino romano. Ora, parlare di economia civile e di economia politica già con questa precisazione vi fa capire dov’è la differenza ultima: l’idea dell’economia civile è che nel gioco economico devono poter entrare tutti, non solo gli efficienti, i più produttivi, i più intelligenti: ci deve essere posto per tutti, mentre alla base dell’idea dell’economia politica c’è che il gioco economico è un gioco per i più abili, per i più dotati, e ai meno dotati pensa la sfera del sociale. Per cui c’è dicotomia tra l’economico e il sociale: la sfera dell’economico, secondo l’economia politica, è per i più efficienti e i più produttivi, e se uno è poco produttivo deve essere emarginato, portato fuori dell’agorà della polis, e inserito dentro la sfera del sociale, dove ci saranno organizzazioni, soprattutto lo stato, che si prenderà cura di lui. Nella prospettiva dell’economia civile questo non è tollerabile perché è offensivo della dignità umana.
Già da questo capite perché oggi in Italia, e in altri paesi più avanzati del nostro, le idee dell’economia civile stanno ritornando sulla scena dopo oltre due secoli. Questa è una bella notizia e una grande novità. Se voi guardate, l’idea della big society che il Primo Ministro inglese Cameron ha lanciato pochi mesi fa è esattamente questo: non è altro che una ripresa, da parte degli inglesi (che hanno inventato l’economia politica) dell’economia civile. Ovviamente non possono ammetterlo, perché bisogna essere umili e gli inglesi non lo sono; non possono ammettere che la loro idea della big society è ricavata da noi, visto che l’economia civile è stata inventata dagli italiani: dapprima i napoletani, poi i milanesi Lerri, Beccaria, Giandomenico Romagnosi. Si tratta di recuperare questa idea di economia civile, che, come avviene nel fiume carsico che scorre in superficie, va sotto terra e dopo un po’ ritorna in superficie. Cercheremo quindi di capire perché sta tornando in superficie.
Prendiamo quindi le mosse dalla considerazione che la crisi economico‐finanziaria scoppiata oltre tre anni fa e tuttora in atto, ci ha lasciato diversi insegnamenti. Ne prendo due.
Il primo insegnamento ha che vedere con il fatto che aver separato, negli ultimi decenni, da quando è nata la globalizzazione, il mercato dalla democrazia, ha generato una serie di squilibri di cui ora stiamo pagando le conseguenze, perché questa separazione ha portato innanzitutto alla tesi dell’autoreferenzialità del mercato. Autoreferenzialità significa che il mercato pretende di trovare dentro se stesso le ragioni della propria legittimazione. Sappiamo che questo non è accettabile, e ne abbiamo visto le conseguenze, perché l’agire economico è un agire umano e quindi deve avere un senso; la parola senso vuol dire direzione, e non può essere un’attività umana, come quella economica, finalizzata a se stessa, perché questo degenera puntualmente, come si è verificato. La seconda è l’autoregolatività, l’idea cioè per cui il mercato si autoregola. Pensate: il pensiero liberalliberista fino a tre anni fa in tutte le più prestigiose università americane, ed alcune anche italiane, ad esempio la Bocconi, sosteneva l’idea secondo cui il mercato è un’organizzazione economica che è in grado di autoregolarsi, cioè di darsi le regole da sé al proprio funzionamento. Abbiamo visto a cosa ha portato questo, perché è come dire che giochiamo e ci diamo noi le regole, e l’arbitro è parte della squadra. Quindi la squadra che ha l’arbitro vince per forza. Deve essere la democrazia a fissare le regole, non può essere il mercato. E con democrazia intendo un luogo (un Parlamento, un’assemblea o altro) che esprime i desiderata e i sistemi di valori della comunità di riferimento. Infine questa separazione ha comportato una terza grave conseguenza, la teleopatia, cioè la malattia, la sindrome che colpisce coloro i quali hanno un solo obiettivo da raggiungere e vivono per raggiungerlo; e finché non lo massimizzano non stanno bene. Quelli che sono ossessionati sono dei telepatici, cioè hanno un solo fine. Concretamente questo vuol dire aver ridotto l’uomo ad una dimensione. Marcuse, il filosofo della Scuola di Francoforte, scrisse un libro che divenne famoso nel momento della contestazione del 1968: “L’uomo a una dimensione”. Aveva capito la riduzione dell’umano ad una sola dimensione. Noi esseri umani siamo diversi dagli animali proprio in questo: che non possiamo vivere solo per massimizzare il profitto. E questo non significa che il profitto sia un male: lo diventa quando diventa una patologia, e si vive solo per il profitto, come l’avaro. L’avarizia (in inglese ‘greed’) è un vizio capitale, perché l’avaro vive solo per accumulare, non ne ha mai abbastanza, vuole sempre avere di più. Ricordatevi la lupa di cui parla Dante, che è rappresentata come un animale vorace, che più mangia più dimagrisce. Questo è il primo insegnamento che la crisi ci ha consegnato: aver separato il mercato dalla democrazia ha generato un mercato che è autoreferenziale, che si autoregola, e comportamenti teleopatici, cioè ha reso ossessionati di accumulare di più: se sei un consumatore di massimizzare l’utilità, e se sei un imprenditore di massimizzare i profitti e non bastano mai quelli che si fanno e così via.
Ecco perché, in questo contesto, il paradosso della felicità ha avuto così grande successo. Questo paradosso è stato scoperto da un americano, Richard Easterlin, nel 1974. Questo paradosso è rappresentabile mettendo in ascissa il reddito procapite e in ordinata l’indice sintetico di felicità. La curva che Easterlin ottenne è a forma di parabola: fino a 22.000 dollari all’anno procapite, aumenti del reddito procapite fanno aumentare la felicità, ma oltre questa soglia dimensionale di 22.000 dollari aumenti del reddito procapite la fanno diminuire. Ecco perché si chiama paradosso (che significa sorpresa, meraviglia, qualcosa che non ci si aspetta) della felicità: perché in passato eravamo abituati a pensare che l’infelicità fosse legata alla pochezza del reddito, quindi il paradosso ci dice che invece questo non è vero. Ci dice che oltre una certa soglia ulteriori aumenti del reddito fanno diminuire la felicità, e questo spiega la condizione di vita dei nostri paesi. Perché ormai anche in Italia si dice che si deve cambiare il sistema di misurazione della ricchezza, che bisogna andare oltre il P.I.L.? Perché tutte queste novità trovano origine in questo paradosso.
Ci sono anche delle note interessanti: se guardate la curva della felicità degli uomini e delle donne (e questo non l’aveva previsto nessuno perché sono tutte curve empiriche basate sui dati statistici) quella delle donne è più bassa di quella degli uomini. Si tratta di una novità assoluta, perché per secoli le donne sono sempre state rappresentate in media come più felici degli uomini: oggi è vero il contrario, e le donne, a parità di condizioni, sono meno felici degli uomini. Perché? Più oltre vedremo di capirlo.
Questo è interessante e ci aiuta a capire un altro fenomeno, il problema della crisi della famiglia, e soprattutto del basso tasso di fertilità. Oggi le ragazze percepiscono la fertilità come un modo per aggravare l’infelicità, e qui sta la grave responsabilità di chi organizza l’attività di impresa, di chi ha responsabilità politiche, dei media, perché fa capire una cosa sbagliata; i figli invece danno la felicità, quindi nel momento in cui la gente vede nei figli la causa dell’infelicità vuol dire che c’è qualcosa che non funziona. Quando si arriva a queste prese di atto non si può far finta di niente, perché uno si chiede qual è lo scopo di lavorare, di essere sempre più produttivi se alla fine si è meno felici.
Ho parlato di felicità, non di utilità, che aumenta, perché aumentando il reddito è chiaro che l’utilità aumenta; la felicità è una cosa diversa, perché l’utilità è la proprietà della relazione tra la persona e la cosa, mentre la felicità è la proprietà della relazione tra persona e persona; ecco perché Aristotele diceva che non si può essere felici da soli: bisogna essere almeno in due, perché per essere felici ho bisogno di riconoscermi, e le cose non mi riconoscono; però mi danno l’utilità, è l’utilità è buona. Se io ho sete ho bisogno di bere, però se io dicessi che sono felice direste che sono impazzito, perché l’acqua che bevo mi dà un’utilità, perché soddisfa il bisogno, ma la felicità è molto di più che non il soddisfacimento di bisogni. L’utilità è la eudamonia, che in greco significa ‘fioritura’: per essere felici dobbiamo fiorire; è molto bella l’immagine del fiore che sboccia, perché fa capire in che cosa consiste la felicità.
Il primo insegnamento che la crisi ci dà, cioè l’aver separato il mercato dalla democrazia, cioè da quel luogo in cui i valori vengono discussi, confrontati, accettati ha determinato esattamente la situazione finora descritta. E puntualmente è avvenuta la vendetta, la nemesi storica: per aver fatto così, anche sul piano strettamente economico, abbiamo perso, e tanto: andate a vedere tutti i soldi che i governi hanno dovuto sborsare per impedire il fallimento delle banche…
C’è un secondo insegnamento che questa crisi ci consegna: riguarda il livello imprenditoriale, il modo di fare impresa. Il punto è che il paradigma dell’economia politica ha insegnato agli studenti degli ultimi 200 anni che impresa = impresa capitalistica, cioè che l’unico modo di fare impresa è quello in cui si lavora per massimizzare il profitto ad ogni costo. Come mai si è affermata questa concettualizzazione fino a diventare cultura popolare? Chiedete a chiunque passa per la strada chi è l’imprenditore: vi risponderà che è uno che opera per fare soldi. Allora come mai si è affermata questa idea? Questo è avvenuto sulla base del sillogismo aristotelico, in cui la prima proposizione è che lo scopo dell’impresa è di essere efficiente. Ora, efficiente vuol dire non sprecare le risorse e usarle nel modo migliore, perché le risorse sono scarse. La seconda proposizione è: cosa vuol dire essere efficienti? Come si misura l’efficienza? Attraverso la massimizzazione del profitto: se un’impresa fa 100 di profitto e un’altra ne fa 50, la prima è più efficiente della seconda, dunque la conclusione del sillogismo è che se l’impresa deve essere efficiente, e l’efficienza si parametrizza sul profitto, allora l’impresa è l’attività di chi segue la logica del capitale, cioè la massimizzazione del profitto. L’errore in questo sillogismo, che ancora molti economisti in gran parte non denunciano, sta nel fatto che si considera il concetto di efficienza come un concetto oggettivo, tale per cui tutti devono intendere la stessa cosa, e cioè che essere efficiente significa massimizzare il profitto.
Qui, per farmi meglio capire, mi avvalgo di una storia, di un apologo: c’è un medico che opera in ospedale e ha dieci dosi di un siero salvavita. Una notte arrivano all’ospedale due autobus, ognuno con dieci persone che hanno bisogno di questo siero, altrimenti muoiono. La differenza è che il medico sa che le persone che stanno nell’autobus A hanno una probabilità del 100% di sopravvivere se ricevono il siero, quelli nell’autobus B invece hanno il 50% di probabilità di continuare a vivere pur ricevendo il siero. Se sono il medico e voglio essere efficiente (perché le risorse sono scarse e ho solo dieci dosi) darò le dosi alle persone del gruppo A, salvando così dieci vite, altrimenti ne salverei solo 5. Al medico diamo però questa informazione aggiuntiva: i soggetti del gruppo A sono anziani di 80 anni, la cui speranza di vita è 85 anni, quindi hanno mediamente ancora 5 anni di vita, mentre quelli del gruppo B sono bambini che hanno 5 anni, e quindi hanno un’aspettativa di vita di 85 anni. In questo caso il medico, sulla base di queste informazioni, se vuole essere efficiente, darà le dosi al gruppo B, perché salva 5 persone che vivranno altri 80 anni (in tutto 400 anni), mentre se le dà al gruppo A ne salva sì 10, che però, vivendo solo 5 anni, daranno un totale di 50 anni di vita; potrei poi anche dire che le dosi non sono di proprietà del medico, ma di una farmacia che le dà a chi offre il prezzo più alto per massimizzare il ricavo. Se vuole essere efficiente, in questo caso il medico le darà al gruppo A, perché si tratta di persone anziane, con soldi, mentre i bambini non possono pagarle. Quindi il senso di questo apologo è che il concetto di efficienza non è un concetto oggettivo, mentre tutti i libri e tutti i professori di economia insegnano che essere efficienti è come dire che questo che ho qui è un bicchiere, che è qualcosa di incontrovertibile. La storiella ci insegna invece che l’efficienza può essere definita dopo che abbiamo precisato il criterio di valore; il criterio può essere quello di massimizzare le vite umane, o il criterio di vita, o piuttosto il ricavo, il profitto: a seconda del criterio io sono efficiente o no.
Quindi capite che il sillogismo di prima è falso: dove sta scritto che l’unico fine dell’impresa sia la massimizzazione del profitto? Sta scritto se l’impresa è capitalistica, quindi bisogna aggiungere ‘capitalistica’ al sostantivo ‘impresa’, perché se io volessi fare con alcuni di voi un’impresa non capitalistica vorrebbe dire che non siamo più efficienti?
Ad esempio, se vogliamo fare un’impresa sociale, o una cooperativa, oppure una impresa civile (che ancora non esiste ma fra un po’ verrà creata), il fine dell’impresa cooperativa non è di massimizzare il profitto ma il dividendo sociale; e non obiettate che ci sono alcune cooperative che si comportano male, perché stiamo parlando della forma di impresa cooperativa, nella pratica poi i malviventi ci sono dappertutto. Non bisogna mai mischiare i piani del discorso. Se formiamo una cooperativa allora il nostro fine non è la massimizzazione del profitto, quindi per questa ragione dovremmo dire che non è efficiente? E se facessimo un’impresa sociale il cui fine è aumentare o di massimizzare il benessere collettivo questa allora non è un’impresa efficiente? Pensate ad esempio alla Fondazione “Don Gnocchi”, che ha 30 centri in Italia, centri ospedalieri di altissimo livello. E’ un’impresa che opera per massimizzare il profitto? No, massimizza il numero degli interventi a favore dei poveretti, dei bambini, dei mutilatini, dei disabili, quindi realizzano il loro fine quando riescono, con la riabilitazione, a rimettere in sesto le persone. Dovremmo dire che non sono efficienti perché non massimizzano il profitto? Quello non è il loro fine!
Quindi il secondo insegnamento della crisi è proprio quello di aver fatto creder che c’è un solo metodo di fare impresa, che è quello capitalistico. Questa è una menzogna: e non dico che non ci vogliano le imprese capitalistiche, ma dico che non si può dire che quello è l’unico modo di fare impresa. Perché noi esseri umani siamo diversi su molti piani, ma soprattutto sul piano delle motivazioni; le motivazioni umane sono di tre tipi: estrinseche, intrinseche e trascendenti. Le motivazioni estrinseche sono quelle di chi opera e lavora per i soldi. Non mi scandalizzo di chi lavora in questo modo: non è la mia convinzione ma lo rispetto. Se uno però vuol fare il furbo e mi vuol far credere che ha motivazioni intrinseche mentre ha quelle estrinseche reagisco, perché non si può evidentemente rispettare chi fa l’ipocrita e vuol far credere una cosa per l’altra. So però anche che ci sono altri (e sono in numero maggiore) che hanno motivazioni intrinseche, cioè quando uno si determina a fare un’azione perché gli piace, ci crede, si sente realizzato: pensate ad esempio ai medici. E’ vero che ci sono anche medici (come vedete sui giornali in questi giorni) finiti in prigione per aver rovinato tanta gente per il loro profitto, e non mi meraviglio, che hanno quindi solo motivazioni estrinseche, ma ce ne sono molti di più che hanno motivazioni intrinseche, a cui interessa salvare una vita. C’è poi la motivazione trascendente: quando è agita da chi vuole produrre un beneficio in capo a qualcun altro. Un genitore nei confronti dei propri figli, ad esempio, quando agisce dovrebbe agire perché ha motivazioni trascendenti, cioè per il bene del figlio. Anche i docenti che insegnano ai propri studenti in base a motivazioni trascendenti, insegnano perché vogliono scommettere sulla loro libertà; altri invece insegnano perché sono pagati bene e quindi vanno dove sono pagati meglio.
Il punto è che questi tre tipi di motivazioni nelle nostre società sono presenti dappertutto: cambia però la loro proporzione. In alcune società e comunità domina la prima, in altre la seconda e così via. Non dobbiamo né scandalizzarci di questo, né fare i moralisti. Dobbiamo imparare a rispettare tutti, però dobbiamo anche esigere che la strutturazione della società e dell’economia siano tali per cui se uno ha motivazioni intrinseche e/o trascendenti non deve essere impedito dal farlo. Oggi invece nella nostra società questo non avviene, anche se ci sono eccezioni, che però sono eccezioni: ci sono cooperative, imprese sociali, però sono eccezioni dal punto di vista giuridico, e sono considerate imprese di serie B o C. Se uno lavora in una cooperativa o impresa sociale è considerato inferiore: l’idea è che se uno è poco dotato va a lavorare nel non profit, nel cosiddetto ‘terzo settore’, perché se uno avesse le qualità farebbe l’amministratore delegato in un’impresa capitalistica ecc. Questa è una violazione patente del principio di libertà perché vuol dire impedire a coloro i quali hanno motivazioni intrinseche, o trascendenti, cioè una vocazione, di poterla realizzare. Non è civile una società che impedisce a chi ha una vocazione di poterla perseguire: sto parlando di vocazione nel lavoro, non si tratta di una vocazione religiosa. Anche fare il padre, la madre, l’insegnante, il medico è una vocazione. Se quindi una società si struttura in modo tale da impedire questo è una società immorale, perché nega il principio di libertà.
Questa crisi ci ha insegnato che aver identificato il fare impresa solo con in modo capitalistico è all’origine dei guasti che osserviamo e soprattutto della decadenza. E tutto questo avviene nell’abbondanza, perché il reddito e la ricchezza aumentano, non diminuiscono: aumentano le disuguaglianze, ma a livello aggregato la ricchezza dopo anni aumenta e il paradosso è che però la gente è sempre meno felice, sempre più disperata. Basta guardare al tasso dei suicidi: il paese occidentale con il più alto tasso di suicidi è il Giappone, quello con il tasso più basso è l’Italia. Perché? La ragione sta in quello che ho detto: perché in Italia c’è più possibilità che non in altri paesi di fare impresa in maniera pluralistica, e infatti l’Italia è il paese che ha il settore non profit più sviluppato di altri paesi, ovviamente in rapporto alla popolazione (pensate al nostro mondo dell’associazionismo, alle cooperative, al volontariato, alle fondazioni, alle imprese sociali): dare cioè la possibilità di scegliere il lavoro che realizza la motivazione è la grande scommessa.
Quindi se hai una motivazione estrinseca non ti impedisco di lavorare, abbiamo bisogno anche di imprese capitalistiche, ma l’importante è non impedire la cosa agli altri, e finora è stato così. Perché se andate a vedere il sistema di leggi e il funzionamento del mercato finanziario e come è strutturata la nostra economia vedrete che tutti questi strumenti sono pensati per l’impresa capitalistica. Chi fa speculazione nei mercati finanziari? Avete mai visto un’impresa sociale che fa speculazione? Perché la speculazione è un’attività funzionale a un tipo di impresa e non agli altri. Perché non riusciamo a far partire una Borsa sociale che sia il corrispondente della Borsa speculativa che c’è già, e ci deve essere?
Fare impresa è quindi generare il valore aggiunto, ma il fine per cui genero questo valore aggiunto deve essere lasciato alla libertà di scelta delle persone o dei gruppi. Se qualcuno vuole fare impresa per massimizzare il profitto nessuno deve impedirglielo, ma anche se uno vuole fare impresa per massimizzare l’utilità sociale o un’altra funzione obiettivo deve essere lasciato fare.
L’idea dell’economia civile è tutto questo: il programma, il progetto di ricerca dell’economia civile è, per quanto riguarda il primo punto, che non è possibile separare l’attività del mercato dalla democrazia, e, secondo, che deve essere data effettiva libertà di scelta alle persone di fare il tipo di impresa che maggiormente corrisponde alle loro motivazioni.
Pensate all’impresa artigianale, famigliare: per fortuna in Italia si fa, ma non se ne fa abbastanza, perché fino ad anni recenti la regola era quella di fare la grande impresa, e chi aveva una piccola impresa si doveva fondere insieme ai grandi; guardate cosa è successo al sistema bancario: avevamo le Casse di risparmio, ne sono rimaste pochissime, e le altre sono state risucchiate dai grandi gruppi. La Cassa di risparmio era la banca del territorio, e senza di questa non c’è sviluppo locale; per fortuna abbiamo tenuto le BCC, le banche di credito cooperativo, che anni fa si dicevano essere superate. E chi sosteneva questo dovrebbe riconoscere l’errore, mentre si fa finta di niente, e si continua a fare i maestri; questo è lo scandalo vero, perché non è scandaloso sbagliare, ma è quando si fa il doppio gioco, e si sostiene che si voleva dire altro: questo è intollerabile.
Ci abituiamo, bisogna aver pazienza, ma questo non vuol dire stare zitti perché la verità va ricercata e proclamata, ci è stato insegnato: Caritas in veritate.
Il punto in questione è dunque che l’impresa deve tornare ad essere un luogo educativo. Se parlando con degli economisti dite loro questa frase, e vi guardano con superiorità, dovete rispondere che non hanno mai letto Alfred Marshall, uno dei più grandi economisti inglesi della fine dell’800, di Cambridge, fondatore della microeconomia; nel 1890, nel suo “Principles of economics”, Marshall sostiene che l’impresa è il luogo dove si forma il carattere umano, cioè un luogo di educazione. Ora, Marshall era un liberale (non un liberista!) e prima di lui una cosa analoga era stata detta anche da John Stuart Mill, altro grande liberale inglese, e prima ancora, ovviamente, l’avevano detto Antonio Genovesi e tutti gli economisti dell’economia civile, Romagnosi, Filangeri, Verri, Dragonetti. Il fatto che l’abbiano scritto anche gli inglesi, di scuola liberale, è rilevante. L’impresa cioè è un luogo dove si forma il carattere umano, perché stando tante ore al giorno in un lavoro come si fa a dire che lo scopo dell’impresa è massimizzare i profitti? Se ci sono in un’impresa degli esseri umani che formano il loro carattere a seconda del modo in cui si organizza il processo produttivo, si forma un carattere piuttosto che un altro. E’ la stessa cosa che succede in famiglia quando si allevano i figli, che crescono a seconda del progetto educativo; come mai abbiamo dimenticato allora questa antica saggezza?
Un imprenditore o manager deve prima chiedersi se gli interessa massimizzare il profitto e basta, e farlo con chi ha le stesse motivazioni estrinseche; li lasciamo fare, se liberamente lo scelgono, ma non si può pretendere di imporre quel modello a chi ha un’altra concezione della vita, perché questa è questione di libertà. Ecco perché i grandi, veri liberali, che amavano la libertà, hanno detto quello che si diceva poco prima.
Capite quindi che la sfida che oggi è di fronte a noi è una sfida di civiltà. A me interessa far avanzare la società nella direzione della libertà, e questa va esercitata non solo nella sfera politica, quando si va a votare, ma anche nella sfera economica; ecco perché oggi si parla di democrazia economica, che oggi non c’è: esiste solo la democrazia politica. Quindi se vogliamo far progredire la nostra società nella direzione del progresso sia morale che civile dobbiamo muoverci. Ed ecco perché oggi il paradigma dell’economia civile sta ritornando, perché la gente comincia ad aprire gli occhi, a capire che c’è un modo diverso di fare economia, che non rinuncia a nulla. Chiudo con un frase tratta da un romanzo del letterato brasiliano Paulo Coelho: “nella vita di ogni persona ci sono due opzioni, l’opzione del costruire e l’opzione del piantare. Chi sceglie l’opzione del costruire si mette all’opera, costruisce l’edificio, e quando l’ha finito non può fare altro che ammirarlo; chi invece sceglie l’opzione del piantare la notte non dorme, perché teme che l’avversa stagione distrugga, ma a differenza dell’edificio, il giardino non cessa mai di crescere”. Se potete, scegliete l’opzione del piantare, perché l’opzione del costruire immediatamente vi dà il senso della realizzazione, ma poi vi lascia nella frustrazione; è meglio invece piantare, perché lì per lì il risultato non si vede, ma prima o poi la pianticella viene fuori e continua a crescere, anche quando abbiamo smesso di concimarla o di annaffiarla.
Risposte ad alcuni interventi
Quali azioni deve intraprendere lo stato per favorire la nascita e l’esistenza di questo tipo di imprese? Oppure queste devono agire indipendentemente e non cercare l’aiuto statale?
Il punto del ruolo dello stato in questo caso, rispetto al discorso fatto, è molto semplice: dobbiamo modificare l’apparato di leggi da cui dipende quella stortura di cui si parlava. Il Codice Civile italiano nel Libro I, Titolo II, tratta delle forme di impresa non capitalistiche: quella parte del Libro I è ancora quella del 1942, e da allora non è stata cambiata. Il ruolo dello stato quindi è quello di fare meno chiacchiere e meno retorica e aggiornare il sistema di leggi, perché le leggi attualmente vigenti scoraggiano e discriminano le imprese non capitalistiche, quindi non consentono la libertà. Un altro esempio: le leggi attuali scoraggiano le imprese artigiane; non è che le impediscono, ma economicamente, se io rendo difficile ottenere il credito, è chiaro che si tratta di uno scoraggiamento; se non creo una Borsa sociale, per consentire alle imprese non profit di avere finanziamenti, è inutile che si dica di far pure cooperative e imprese sociali, perché poi se non si permette di ottenere il credito si viene strangolati. Questo è quello che deve fare uno stato sussidiario, mentre il nostro vuol fare lo stato paternalista, che produce disastri su disastri. Il ruolo dello stato è quindi molto importante, perché compete allo stato democratico fissare le regole del gioco.
Riguardo alle votazioni alla Fiat Mirafiori di oggi a Torino nel mio piccolo ho cercato di dare la mia risposta, ed è un ‘sì’, ma alla luce di quanto ha detto questa sera sono in dubbio sulla mia risposta, e non sono tanto più sicuro di questo ‘sì’.
La vicenda è stata gestita malissimo, sia dai media che dai diretti interessati, perché non si è spiegato ai cittadini i termini reali della questione. A favore di Marchionne parla la considerazione che la globalizzazione dei mercati è un fatto, non l’ha inventata lui. La globalizzazione è stata creata dalla politica, è venuta da una decisione del novembre 1975, quando nella riunione del primo G6, Italia inclusa, a Rambouillet, si è presa la decisione di iniziare la globalizzazione. Quindi, Marchionne afferma, quando è arrivato 5 anni fa ha trovato un’impresa che andava male, perché è sempre stata finanziata dallo stato, cioè dalle nostre tasse e evidentemente il problema era se farla morire o farla rinascere, e quello che ha fatto è stato per andare incontro ad una situazione non creata da lui.
Questa è la parte a sua discolpa, ma non ha ragione totalmente, ed ha sbagliato: come prima cosa ha sbagliato perché è ‘antipatico’, che etimologicamente vuol dire che non soffre e non vuol condividere con gli altri. Se fosse stato ‘simpatico’, (e si può diventare simpatici, se si vuole, perché la simpatia è una virtù e significa ‘soffrire insieme’, condividere la vita di un altro e capire i suoi problemi), se cioè avesse dimostrato di capire la situazione, certamente le cose non sarebbero andate così.
E la seconda sua colpa più grave è stata di non aver detto che il calo di produttività della Fiat è imputabile per il 35‐40% al lavoro (l’assenteismo c’è, non lo si può negare), ma per il resto è imputabile al capitale, cioè alla proprietà, perché la Fiat negli ultimi 25‐30 anni non ha fatto investimenti in capitale umano; i nuovi modelli non vengono dal cielo, bisogna mettere al lavoro la gente. Avrebbe dovuto dire che è colpa anche dei suoi predecessori, come Romiti, che ha veramente rovinato la Fiat. Nessun investimento è stato fatto in risorse e sviluppi, perché gli azionisti, i proprietari, cioè la famiglia Agnelli, volevano i dividendi, e quando si fanno gli investimenti per i primi anni i dividendi non ci sono, perché quando si getta il seme (ecco la metafora di Qohelet) il frutto non c’è subito, ma dopo un po’, e se io sono avido e voglio il frutto subito non faccio l’investimento. Se avesse detto che la colpa era in gran parte del capitale, avrebbe proposto ai lavoratori di lavorare un po’ di più e agli azionisti di non distribuire i dividendi per alcuni anni, perché la colpa era loro. Forse così le cose sarebbero andate diversamente. E il Consiglio di amministrazione non l’avrebbe sfiduciato, perché sapeva che se l’avessero cacciato sarebbero andati tutti male, perché la Fiat non poteva reggere la concorrenza. Era quindi in una posizione di vantaggio rispetto al CdA, perché questo è forte solo quando le cose vanno bene. Se Marchionne avesse avuto un po’ di coraggio e un po’ di senso morale avrebbe potuto farlo, invece ha fatto credere che tutta la colpa era del lavoro e quindi la FIOM si è ribellata e anche gli altri hanno dovuto dire di sì obtorto collo.
Questo, vedete, è un modo di ragionare bilanciato, che chiama le cose con il proprio nome, perché ce n’è per tutti: tutti possiamo sbagliare, ma bisogna avere il coraggio di ammettere dove si è sbagliato per non reiterare l’errore.
Ha insistito sul valorizzare l’impresa sociale. Però è vero che non possiamo imporre il modello di impresa ma non possiamo neanche imporre le conseguenze del modello dominante, cioè quello capitalistico, che sono negative, sia dal punto di vista sociale che ecologico.
E’ chiaro che il modello dominante è quello capitalistico, ma non perché deve essere dominante, ma perché le leggi in materia economica, finanziaria e tributaria favoriscono quel tipo di impresa. Il giorno in cui venisse fatta una reale parità vedreste che quella dominanza non ci sarebbe più, e ci sarebbe un pluralismo, e sarà data alle persone la libertà di scegliere dove lavorare.
Come si può misurare l’indice di felicità di Easterlin?
L’indice di felicità, che oggi viene pubblicato annualmente da tutti i paesi, anche quelli in via di sviluppo, è ottenuto sulla base di una metodologia statistica molto raffinata aggregando parametri di tipo oggettivo (tasso dei suicidi, consumo di psicofarmaci, tasso di separazioni e divorzi coniugali, percentuali di sindromi depressive e così via) e di tipo soggettivo (ottenuti sulla base di questionari che vengono somministrati su base annuale a gruppi o campioni stratificati con domande rispetto ad esempio al come si considera la propria condizione di vita rispetto all’anno passato, ecc.); dall’insieme di questi dati si ottiene l’indice sintetico della felicità e correlando questo indice con il reddito pro‐capite si ottiene la curva della felicità. La forma della curva è sempre la stessa, ma può accadere che per una paese la curva sia una, per un altro sia diversa. La soglia è quindi diversa da paese a paese. All’epoca di Easterlin era di 22.000 dollari, oggi è di 33.000, perché evidentemente la curva si è spostata, e il punto che leggete sull’asse delle ascisse viene spostato a destra. La forma però è sempre parabolica. Nei paesi poveri è la mancanza di reddito che mantiene basso l’indice di felicità, per cui è chiaro che devono aumentare il reddito pro‐capite, mentre da noi è vero il contrario: aumentando il reddito diminuisce la felicità.
La spiegazione del fenomeno è legata al fatto che il nostro benessere (ben‐essere, quindi felicità) è la risultante di due componenti: la dimensione acquisitiva e quella espressiva. Perché noi stiamo bene queste due dimensioni devono essere entrambe realizzate. Certo se parto da una posizione di reddito molto basso, delle due dimensioni la più importante è quella acquisitiva, che significa aver da mangiare, i vestiti, la casa e così via. Se però vivo in un paese dove il reddito medio è elevato, quello che mi fa difetto è la dimensione espressiva, cioè il modo con cui io esprimo la mia personalità.
Mentre per soddisfare la dimensione acquisitiva ci vogliono i beni materiali (pane, vestiti, automobili…), per soddisfare la dimensione espressiva ci vogliono i beni relazionali (relational goods), quelli che esprimono la relazione. Quello che allora il paradosso della felicità dice è che i nostri paesi avanzati (che sono a destra del punto di massimo della curva) sono paesi in cui si producono troppi beni materiali e troppo pochi beni relazionali. Quindi il reddito aumenta, e abbiamo più beni materiali, ma abbiamo meno beni relazionali, e siccome la nostra felicità dipende dai beni relazionali la nostra scarsità è che abbiamo troppo pochi beni relazionali.
Quando spiego questo a certi economisti non capiscono, perché per loro il benessere è solo quello materiale, economico. La gente semplice invece capisce, perché quando si dice che i soldi non sono tutto è vero: non si dice che non servono, ma non sono tutto, perché si ha bisogno anche di altro, della gioia, del sorriso. Se uno vivesse in un contesto (una famiglia, un’azienda) dove nessuno ti sorride, nessuno ti chiede come stai, si può essere felici? Avete mai visto una coppia che essendo felice divorzia?
I beni relazionali richiedono un investimento di tempo; un esempio tipico di bene relazionale è l’amicizia, o il matrimonio. Il paradosso è che per guadagnare più soldi devo dedicare più tempo al lavoro e sottrarlo alle relazioni umane. Allora sono più ricco ma più infelice. Chiedete a un bambino di meno di sei anni se preferisce giocare da solo con la nuova play station o il nuovo giochino elettronico nella sua camera o giocare con gli altri: il 99,99% risponderà che vuole stare con gli altri, perché i bambini hanno bisogno di relazionalità, perché devono crescere. Ecco perché non devono stare troppo davanti alla televisione, perché la televisione non appartiene alla categoria della relazionalità, e i bambini diventano autistici o matti, e sempre tristi. I bambini hanno bisogno del contatto, di qualcuno; nel rapporto con l’altro si afferma e si scopre la propria identità profonda.
Alla luce di questa spiegazione capite anche il problema delle donne, del perché la loro curva della felicità è più bassa di quella degli uomini. Pochi giorni fa qualcuno mi diceva che per rilanciare la famiglia le donne devono stare a casa e gli uomini devono andare a lavorare fuori, così le donne mettono al mondo i figli, li curano, li educano ecc. Questo è l’atteggiamento più anticristiano che esista. Perché questa è un’aberrazione più grande, perché costringiamo le donne ad una tragic choice, nel senso che ne dà Guido Calabresi, cioè ad una scelta tragica, tra due alternative entrambe dotate di valore. Le costringiamo a scegliere tra stare a casa oppure lavorare e fare carriera. Perché invece gli uomini non dovrebbero sottostare a questa scelta? Se si va avanti con questo ragionamento si arriva al razzismo. Questo è il punto, perché i bambini hanno bisogno del padre e della madre, del carisma femminile e di quello maschile, perché c’è complementarietà. E se è vero questo, significa che nel luogo di lavoro deve esserci l’elemento maschile e quello femminile, perché le donne nel luogo di lavoro portano qualcosa e gli uomini portano qualcos’altro. Siccome la nostra organizzazione del lavoro nell’impresa è tutta ancora basata sul vecchio modello tayloristico dell’uomo, le donne sono infelici. Sapete che nel campo universitario ci sono più laureate che laureati, e le donne hanno in media tre punti in più dei maschi e sono più brave? Noi allora le mandiamo a fare Master e dottorato fino a 27‐28 anni e poi gli diciamo ‘basta, devi stare a casa’. Capite che il problema è che, costringendo le donne a questa scelta tragica, la loro curva della felicità è più bassa, perché soffrono. una donna che rinuncia a fare figli per realizzarsi nel lavoro non è contenta, e viceversa. Questa è oggi una delle più gravi ingiustizie sociali. Questa è la ragione per cui nel maggio prossimo a Milano ci sarà il Congresso mondiale delle famiglie e il tema scelto personalmente dal Papa è “Famiglia: lavoro e festa”. Questo Papa, che è davvero molto intelligente, ha voluto che il tema venisse declinato mettendo al centro il tema della conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita familiare, perché uomini e donne devono lavorare e stare in famiglia, fare tutte e due le cose, con organizzazioni del lavoro che devono consentire questo. Questa è la vera libertà. Allora vedrete che il tasso di fertilità aumenterà, così come la felicità.
Le imprese sociali e capitaliste sono monadi o è possibile una contaminazione?
È evidente che la contaminazione non solo è possibile, ma anche avviene. Aristotele diceva che la virtù è più contagiosa del vizio. I mass media ci fanno credere il contrario, ma non è vero: è la virtù ad essere contagiosa, non il vizio; se vedo che uno fa una azione virtuosa, prima o poi quello mi contamina; perché in quelle realtà territoriali (ad esempio faccio riferimento alla mia realtà dell’Emilia Romagna) dove c’è una forte presenza di imprese sociali e cooperative, le imprese capitalistiche sono diverse dagli altri e si comportano in maniera diversa dalla Fiat? Perché sono contaminate. Ad esempio la Barilla, a Parma, ha siglato prima di Natale un accordo che è un modello di welfare aziendale. Quella è una terra dove la contaminazione esiste da 150 anni, e la forte presenza di imprese sociali, di cooperative, di BCC ha creato un certo clima, per cui chi è capitalista non è un capitalista gretto e chiuso come in altre realtà.
Questi sono fatti concreti, perché anche gli imprenditori capitalistici hanno l’anima, e se hanno l’anima, dobbiamo salvargliela. E’ un errore della degenerazione post ’68 il pensare che nel capitalismo è tutto male, tutta cattiveria: non è vero, anche loro devono essere convertiti, e quando questo succede, sono loro i primi a ringraziarvi. Nella storia di Scrooge, nel ‘Canto di Natale’ di Dickens, alla fine Scrooge redistribuisce tutto e ringrazia chi prende i suoi averi, perché gli hanno restituito la gioia che per tanti anni aveva dimenticato. Ecco perché abbiamo bisogno del pluralismo, perché così c’è una contaminazione, e male fanno i soggetti che si comportano secondo il canone della ‘monade’, dicendo che le imprese sociali devono stare fra di loro, perché loro sono i ‘buoni’ mentre gli altri sono i ’cattivi’.
La parabola del lievito ci insegna qualcosa: chi opera per scelta vocazionale nel mondo di questo altro tipo di impresa non deve considerarsi un diverso o un superiore, ma deve mettere a servizio le proprie abilità per far vedere all’altro imprenditore che c’è un modo di fare impresa che rispetta l’umano e la morale. Vedrete che dopo un po’ si cambia. Alcuni non cambieranno, e sarà qualcun altro a giudicarli, non tocca a noi, però intanto il nostro compito di contaminare viene realizzato.
Oggi stiamo assistendo al fenomeno incivile e immorale di una intera generazione giovanile senza lavoro oppure al limite della sussistenza. Per ovviare alla disoccupazione del 29% dei giovani non sarebbe meglio diffondere anche in Italia gli ‘incubatori’ per aiutarli a creare nuove imprese?
Da una recente indagine svolta nella fascia d’età dai 18 ai 29 anni, in diversi paesi europei occidentali, è emerso che, di fronte alla domanda “Accetteresti, essendo senza lavoro, di svolgere un lavoro di tipo manuale in artigianato, agricoltura, nei servizi, pur avendo un titolo di studio, piuttosto che rimanere disoccupato o precario?” la risposta è stata positiva per il 40% dei giovani tedeschi, per il 35% degli inglesi, per il 5% degli italiani. Perché questo? Perché abbiamo sviluppato una cultura contro il lavoro, perché abbiamo insegnato che quello che conta è guadagnare i soldi, e abbiamo così svilito il lavoro. Tant’è vero che nella mentalità corrente bisogna studiare per non lavorare, perché il lavoro è identificato come qualcosa di schifoso e di brutto. Abbiamo gente che si laurea, che fa dei Master e non ha mai visto un’impresa, non ha mai fatto un’esperienza lavorativa: come può capire che cos’è il lavoro? C’è qui una grande responsabilità di scuola e università, che hanno infuso l’idea che lo studio e il lavoro intellettuale sono di serie A, quello manuale è degli ignoranti e degli stupidi. Aver trattato male il concetto di lavoro è stato l’errore più grave, perché contraddice il messaggio di S. Benedetto ‘ora et labora’, ed il suo era un lavoro vero, andare nei campi e così via.
O cambiamo la mentalità e impostiamo un progetto educativo, dando al lavoro il valore che si merita o non ne usciamo più, perché nelle condizioni attuali non c’è modo di ottenere un’occupazione per tutti i giovani che escono dalle nostre scuole superiori, perché le nostre università e la nostra scuola sono delinquenziali, perché si continua a dire che il lavoro manuale è per gli stupidi. Se avessimo seguito un approccio diverso negli ultimi 30 anni, oggi non saremmo a questo punto. Perché in Italia i lavori ci sono, tant’è vero che dobbiamo prendere i lavoratori dal di fuori (pensate alle badanti, 900.000 in Italia, a chi va a raccogliere la frutta d’estate ecc.); il problema è che si è svilito il concetto di lavoro, e questo mi dà fastidio perché è la quintessenza della borghesia, il disprezzo dell’altro; i grandi geni, come Leonardo, erano anche lavoratori manuali.
Concorda che si definisca tutto insieme ‘terzo settore’, sia le imprese sociali che il volontariato?
Ovviamente non concordo, perché mi piace l’economia civile e in questa prospettiva non ha senso parlare di ‘terzo settore’, perché il concetto di ‘terzo settore’ o di non profit è stato inserito a seguito dell’affermazione del paradigma dell’economia politica. In questo paradigma c’è il mercato capitalistico, c’è lo stato e quindi si è dovuto inventare il terzo settore, che sta creando problemi. Nell’idea dell’economia civile questa distinzione non esiste, perché abbiamo detto che in questa prospettiva il mercato va visto come un mare in cui nuotano diversi tipi di pesce, ognuno seguendo la propria specificità, quindi sono pronto a scommettere che prima che io muoia l’espressione ‘terzo settore’ sarà eliminata, perché non ha senso. Ha senso solo se assumete il discorso dell’economia politica, che ci sia cioè il mercato dove ci sono solo capitalisti, ci sia lo stato e i poveretti che non vogliono stare in nessuno dei due vanno nel terzo settore; io combatto questa concezione perché è offensiva, perché fa credere ad una serie A, B, C. E’ possibile che si pensi che i più intelligenti siano quelli che stanno nel settore capitalista? E’ una grave ingiustizia.
E’ in itinere una riforma del Libro I del Codice civile?
È in itinere una riforma del Libro I, Titolo II; ci sono due proposte di leggi nei cassetti del parlamento, una della quali sarà presentata a Roma martedì prossimo, quindi qualcosa forse si sta muovendo. Certo che se la società civile non stesse zitta e protestasse, forse si sarebbe un po’ più avanti. Bisogna avere il coraggio di denunciare, facendo manifestazioni civili, scrivendo sui giornali, facendo interviste.
Riferendomi a quanto ha detto sulla disoccupazione dei giovani, ricordo che negli anni ’60, dopo la riforma scolastica che creò la scuola media unica obbligatoria, in un’assemblea dell’Azione cattolica a Roma qualcuno disse che ora che i ragazzi della scuola media avevano studiato, lo stato doveva dar loro un posto.
Ha confermato quanto detto prima. L’argomento ha a che vedere con il modo di concepire il collegamento tra otium (l’attività dello studio e della contemplazione, che era per Greci e Romani tipica delle persone libere) e negotium (il lavoro, che era per gli schiavi). Aristotele diceva che l’uomo libero non doveva lavorare ma contemplare, pensare; ecco perché si facevano i servi, gli schiavi della gleba. La prima città al mondo ad eliminare la servitù della gleba è stata tra l’altro Bologna, nel 1217, con il ‘Liber Paradisus’.
È chiaro quindi che questa tradizione di pensiero ha lasciato il segno, in Europa ma non negli USA: tutti gli studenti americani che fanno l’università lavorano manualmente tre mesi all’anno. Poi diventano geni, scienziati ecc. Gli italiani non lo fanno. Credono di essere superiori agli altri? Forse accade proprio perché nella tradizione europea resiste questa dicotomia studium/otium ‐ negotium.
In questi ultimi decenni si è in un certo senso tornati all’antico, a causa anche del fenomeno migratorio: i lavori manuali li facciamo fare agli immigrati. Il fenomeno migratorio ci ha fatto tornare indietro anziché in avanti, e siamo diventati dei classisti: loro devono fare i lavori sporchi, e i nostri giovani non li fanno. Vorrei che qualcuno mi smentisse, ma la realtà è questa. C’è purtroppo ancora qualcuno che fa credere ai giovani che se studiano diventano migliori: ma uno che studia e basta diventa stupido!
Dobbiamo invece far in modo che tutti lavorino e studino: ecco perché si sta pensando a come organizzare un’alternanza dei tempi di lavoro e di studio. Questa è una conquista di civiltà, ed è la nuova meta. E si partirà dalla conciliazione per le famiglie, tra uomini e donne, perché dobbiamo abbattere questi muri, così che la gente sia contenta. Non va bene che uno lavori solo e l’altro studi solo.
Ha detto che l’ordinamento giuridico ostacola questo nuovo modo di concepire l’economia; mi sembra che ci sia una forte critica alla responsabilità della politica che in questi anni e decenni ha governato in Italia e nei paesi occidentali. Perché la politica, di qualunque schieramento ostacola o comunque non si fa carico di questo nuovo scenario economico?
Conoscete un politico che si salva? Una volta sì, adesso no. Però non mi piace colpevolizzare le persone, perché non otteniamo niente, semplicemente ci liberiamo dalla nostra responsabilità. E’ vero che abbiamo una classe politica così, e non solo in Italia, anche all’estero non sono messi meglio. Perché siamo messi così male? Perché succede questo? Perché dalla politica è stata tolta la carità. Tommaso Moro, con un concetto ripreso poi da Paolo VI, diceva che la politica è la forma più alta di carità. Cioè: per far politica bisogna essere quasi santi. Così diceva anche La Pira, anche se da un’altra angolatura, e così Alberto Marvelli.
C’è una grave responsabilità da parte degli intellettuali, perché anche qui abbiamo cominciato a dire che la politica è calcolo di interessi e gioco di compromessi. Invece la politica deve tornare a sposarsi con la carità, così come il mercato deve sposarsi con la democrazia, perché se la riduciamo a calcolo di interessi, è ovvio che in politica entreranno solo i maneggioni.
Se invece cominciassimo a dire che la politica è la forma più alta di carità, perché con l’agire politico miriamo al bene comune, si metterebbe in moto il meccanismo opposto, e i più buoni entrerebbero in politica; e se i più buoni fossero anche i più bravi il gioco è fatto.
E’ ovvio che i politici adesso non favoriscano questi nuovi scenari, perché non hanno interesse: se cambiano le leggi e consentono alla società civile di creare e organizzarsi diversamente sono consensi che perdono. Perché la massima gioia di un politico, di un amministratore, di un sindaco è quella di avere fuori della porta la coda di persone che vogliono qualcosa, perché sono tutti voti comprati. Questo è l’effetto, non la causa: la causa è la mancanza di carità.
Ecco perché la Caritas in veritate chiude dicendo che il mondo oggi soffre della carenza di pensiero, non di risorse. Ricordando che c’è il pensiero calcolante, che insegna a calcolare per massimizzare e di questo ne abbiamo troppo, e quello pensante, che indica la direzione di marcia, che ti dice qual è il senso ultimo del tuo agire e del tuo operare e lavorare. Non c’è solo l’efficienza, esiste la fraternità, la relazionalità, quindi aumentiamo il pensiero pensante.