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E disse la donna al serpente: «Del frutto degli alberi del giardino possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non lo mangerete e non lo toccherete, altrimenti morirete”».
Gen 3, 2-3
Secondo il Libro della Genesi, nella sua condizione originaria, l’essere umano era una creatura ingenua, dotata di un intelletto infantile, priva di quella che nella Bibbia è chiamata “conoscenza del bene e del male“, e che può essere intesa come la coscienza morale, la capacità di scegliere con piena consapevolezza come agire.
Nel Giardino dell’Eden, attraverso un severo divieto, il Creatore aveva messo in guardia l’uomo dal nutrirsi del frutto dell’albero della conoscenza. Il rispetto di questo semplice comandamento era la sola condizione che avrebbe permesso all’umanità di continuare a risiedere nel mondo mitico dell’Eden, sperimentando per sempre un rapporto sereno con Dio e con la natura.
Di questa celebre storia e dei suoi intriganti significati abbiamo già parlato in un nostro vecchio articolo, e soprattutto nel nostro libro sulla Genesi. Questa volta vogliamo invece concentrarci su un argomento più specifico, un dilemma che emerge dal racconto e al quale il testo biblico sembra non offrire alcuna soluzione.
Partiamo da ciò che Maimonide (1138 – 1204) scrive nella sua Guida dei Perplessi (I, 2), proprio in merito alla vicenda dell’Eden:
“Alcuni anni fa un uomo saggio mi ha posto una domanda importante. Sia la domanda che la nostra risposta meritano un attento esame […]. Il significato semplice del testo [della Genesi] sembrerebbe indicare che l’intenzione originale [di Dio] fosse che l’uomo dovesse essere come il resto degli animali, che non hanno intelletto o ragione o distinzione tra bene e male, e che sia stata solo la disobbedienza di Adamo a donargli quella grande perfezione che appartiene unicamente all’umanità, cioè il possesso di quella coscienza che è la più nobile di tutte le facoltà umane che possediamo, nonché la caratteristica essenziale degli esseri umani. È sconcertante che la pena per la sua ribellione abbia elevato l’uomo a un simile grado di perfezione (l’intelletto), che egli non aveva precedentemente raggiunto. Ciò equivale ad affermare che una certa persona, essendo stata ribelle ed avendo compiuto molti peccati, ottenne un miglioramento della sua natura e fu fatta brillare come una stella nei cieli”.
Si può dunque davvero ritenere che Dio abbia comandato all’essere umano di restare nel suo stato di ingenuità e ignoranza, donandogli la preziosissima conoscenza del bene e del male solo come conseguenza della sua trasgressione?
Maimonide, che oltre che un rabbino era anche un pensatore aristotelico, risponde alla domanda invocando concetti filosofici piuttosto lontani dal testo biblico. Noi vogliamo invece provare ad abbozzare una risposta restando entro i confini delle Scritture.
L’altro “frutto della conoscenza”
Per riflettere sul dilemma che abbiamo posto, potrebbe essere utile ricordare che esiste un altro racconto nella Torah dove si parla di un cibo che, proprio come il frutto proibito, è oggetto di un comandamento divino, ed è anch’esso legato all’idea della “conoscenza”. Di quale racconto stiamo parlando?
Il Libro dell’Esodo racconta che, poco dopo essere usciti dall’Egitto, gli Israeliti si ritrovano a patire la fame nel deserto. Avendo udito i loro lamenti, Dio interviene fornendo al popolo uno speciale nutrimento dall’alto:
E disse HaShem a Moshè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccogliere ogni giorno la razione di un giorno, affinché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia istruzione o no».
Es 16, 4
Il Creatore fa piovere così per la prima volta sull’accampamento d’Israele la manna (in ebraico man), la misteriosa sostanza bianca dal sapore dolce grazie a cui il popolo ebbe sostentamento nel deserto per quarant’anni.
Quello della manna non è presentato però nel testo come un semplice dono divino, ma come una vera e propria prova: elargendo questo nutrimento, Dio intende verificare se il popolo “cammina secondo la sua istruzione oppure no”, una frase che potrebbe rievocare la “prova originaria”, quella dell’Eden, legata anch’essa a un cibo fornito da Dio.
Insieme alla manna, gli Israeliti ricevono infatti l’obbligo di rispettare alcuni precetti ad essa collegati: ciascun Ebreo ha diritto soltanto a una certa porzione quotidiana (un omer, una quantità sufficiente per un solo nucleo familiare), e non è permesso uscire a raccogliere la manna nel giorno di Shabbat.
Per la seconda volta nella Bibbia, dunque, l’Altissimo vuole valutare le scelte degli uomini in rapporto a un certo prodotto commestibile. E anche la manna, come il frutto proibito, è strettamente collegata alla conoscenza, come si nota dal fatto che la Torah insiste più volte nell’usare il verbo “conoscere” (yadà’) in riferimento a questa sostanza:
- La manna era qualcosa che gli Israeliti “non conoscevano” (Esodo 16:15), che i loro antenati “non avevano mai conosciuto” (Deut. 8:3);
- Preannunciando la discesa della manna, Moshè dice agli Israeliti: “Voi conoscerete che HaShem vi ha fatto uscire dalla terra d’Egitto” (Esodo 16:6);
- Poco dopo, Dio dice a Moshè: “… voi sarete saziati di pane, e conoscerete che io sono HaShem, il vostro Dio” (16:12).
- In Deut. 8:3, Moshè spiega al popolo che la manna gli era stata fornita “affinché tu conosca che non di solo pane vive l’uomo, ma di tutto ciò che esce dalla bocca di Dio”.
Nota: in varie traduzioni bibliche, il frequente ricorrere del verbo “conoscere” in questi versi può passare inosservato a causa del fatto che esso viene talvolta reso con “sapere” e “comprendere”. In ebraico, però, il verbo qui impiegato è sempre e solo yadà’.
In che senso dunque la manna porta “conoscenza” agli Israeliti? Innanzitutto, come abbiamo visto, questo dono aveva lo scopo di insegnare al popolo la cura riservatagli da Dio nel sostenerlo amorevolmente nel deserto.
In secondo luogo, i precetti associati alla manna (il limite di una sola porzione quotidiana e il riposo dello Shabbat) sono volti a educare la coscienza degli Israeliti in vista della rivelazione dei Comandamenti sul Monte Sinai.
Il sociologo Ezra W Sivan ha scritto che la manna, insieme allo Shabbat, “erige un sistema che costituisce il perfetto antidoto al regime di oppressione del Faraone”, un sistema ideale in cui un popolo di schiavi è affrancato da un’Autorità che soddisfa con premura i suoi bisogni, non esiste competizione e le risorse sono distribuite in modo equo.
L’esperienza della manna, come è precisato nel Deuteronomio (8:1-3), rappresenta inoltre una mera preparazione al fatidico ingresso nella terra promessa, quando la nazione sarà chiamata a scegliere tra “la vita e il bene, la morte e il male” (30:15), quattro parole chiave del racconto dell’Eden.
La conoscenza di cui si parla, sia nel caso della manna che in quello del frutto proibito, non è dunque di natura astratta o teorica (una conoscenza che si acquisisce con lo studio), ma è strettamente connessa alla pratica e alla facoltà di scegliere consapevolmente come agire.
Grazie alla manna, Israele impara quindi a riconoscere l’operato del Creatore e a vivere secondo i valori divini in un cammino di crescita e devozione.
Non sembra essere un caso allora che, secondo Esodo 16:34, un vaso pieno di manna fu conservato all’interno del Tabernacolo, davanti all’Arca, proprio nel luogo dove erano posti i due Keruvim (cherubini), un richiamo al Giardino dell’Eden con i suoi mitici alberi e i suoi guardiani angelici.
Il contrasto tra la manna e il frutto proibito
Diversamente da quanto si potrebbe dedurre in base a ciò che abbiamo affermato finora, la manna non è affatto una nuova versione del frutto della conoscenza, ma è il suo opposto.
Da una parte abbiamo infatti un giardino, luogo fertile e rigoglioso, dove l’uomo ha a disposizione tutti i frutti che desidera, eccetto quello della “conoscenza”; dall’altra c’è la desolazione del deserto, dove l’unico cibo disponibile è proprio quello legato alla “conoscenza”.
Il frutto proibito nasce da un albero, dunque dal suolo, in un tempo in cui “Dio non aveva ancora fatto piovere sulla terra” (Genesi 2:5); la manna discende invece dall’alto, poiché Dio fa “piovere il pane dal cielo” (Esodo 16:4).
La prova (fallimentare) dell’Eden causa la cacciata dell’uomo dal Giardino; all’opposto, la prova della manna avviene appena il popolo d’Israele è stato cacciato dal paradiso fertile (ma perverso) dell’Egitto, che nella Genesi è paragonato al “Giardino di Dio” (13:10).
Nel caso dell’Eden, l’essere umano conosce bene l’albero proibito, ma Dio non vuole che ne mangi i frutti e che acquisisca così la “conoscenza”. Nel caso della manna, al contrario, Israele non conosce questo cibo, non l’ha mai visto, eppure Dio vuole che ne mangi e acquisisca la “conoscenza”.
Si potrebbe insomma persino credere che la Torah abbia fatto in modo di contrapporre queste due immagini in modo che la seconda appaia come il riflesso capovolto della prima. Ma a quale scopo?
L’alternativa al peccato di Adamo
In un suo interessante commento alla storia dell’Eden, Rav Gad Eldad nota tutte le analogie e i contrasti che abbiamo illustrato tra il frutto della conoscenza e la manna, traendone le seguenti conclusioni:
“Riteniamo che la Torah offra un’alternativa o un sostituto del frutto dell’Albero della Conoscenza, sotto forma di manna. Al popolo eletto viene comandato esplicitamente di mangiare cibo che discende dal cielo, un cibo che aiuta ad ampliare la propria conoscenza, cioè la propria comprensione della maniera in cui Dio guida il mondo, e la consapevolezza della Sua Sovranità.
Ciò serve a chiarire che Dio non ha mai cercato di privare l’uomo di questa facoltà, né ha mai voluto che l’uomo fosse ignorante. Dio aveva sempre cercato di infondere la conoscenza nell’umanità, ma gli uomini non hanno atteso di riceverla, anzi hanno agito con insolenza appropriandosene da soli; per questo sono stati puniti. […]
Il divario tra questi due tipi di nutrimento ci insegna che la conoscenza non è un semplice elemento neutro di consumo che viene a soddisfare un desiderio intellettuale. Essa deve invece essere acquisita in un contesto morale, attraverso una comprensione del suo ruolo nella vita della razza umana, con tutti i suoi rischi e opportunità”.
Da tale lettura altamente suggestiva emerge l’idea di una Divinità che non pretende di tenere per sé il dono della coscienza morale, ma vuole condividerlo con il genere umano. La “conoscenza del bene e del male” che Dio approva e che è disposto a concedere alle sue creature è però il risultato di un percorso guidato e graduale, non una traumatica scoperta che deriva da un atto di ribellione e che investe l’uomo e la donna di un potere che essi stessi non sono in grado di gestire.
È forse per questo che il frutto proibito conduce all’esilio dall’Eden e alla perdita dell’albero della vita, mentre l’esperienza della manna prepara Israele alla Torah, la sapienza divina, la quale “è un albero di vita per coloro che l’afferrano” (Proverbi 3:18).