Manifesto per una coscienza dignitosa. Un saggio di Tudor Petcu

Dignità, una parola così bella ma pur sempre una metafora dimenticata o ignorata. Un principio che avrebbe dovuto guidare la vita di ciascuno di noi e collocarci oltre i nostri limiti e bisogni organici, biologici e quotidiani. Una realtà che avrebbe ravvivato la materia oscura di un ethos umano racchiuso nel cerchio del regno dell’orgoglio, se fosse realmente esistito.

Queste e molte altre caratterizzerebbero la dignità dalla quale l’uomo si è progressivamente disconnesso, preferendo assumere fatti che lo hanno stravolto. Questo spiega il terremoto e la crisi di coscienza che ha lasciato dietro di sé una storia di lacrime e sangue innocente. Questo spiega il divenire dell’uomo nell’oblio e nell’abbandono da quando ha imparato a nuotare nell’oceano delle lotte istintuali. Questo spiega l’indecenza di una natura umana che sarebbe stata pura nel suo stato originale. Infine, la mancanza di dignità spiega fino a che punto quello che abbiamo oggi, ovviamente nel senso della coscienza collettiva, non è quello che avrebbe dovuto essere. In altre parole, ciò che è stato fatto nel corso della storia ha portato solo al divenire dell’uomo, ma non alla sua trasformazione come forma di purificazione della coscienza storica.

Dignità, la veste dell’anima liberata dalla distruzione esistenziale. Quanto sarebbe necessario per questo capo che la maggior parte delle persone si rifiuta di indossare. Se fosse vestita, l’uomo ritornerebbe molto più facilmente alle proprie origini, a quella voce interiore che gli direbbe non solo cosa fare, ma soprattutto come pensare in vista di un’autentica fatticità.

D’altra parte, al di là di qualsiasi significato spirituale di dignità, dovremmo considerare la sua stessa dimensione etica e morale, il suo status di regina dei vitali. Gli eventi che si sono succeduti durante l’esistenza dell’umanità hanno reso molto chiaro che ogni atto commesso, qualsiasi scelta, dipende in primo luogo dal rapporto che l’uomo coltiva con la propria coscienza. Si crea così un rapporto di convivenza tra coscienza e dignità, il che significa che l’uomo degno è colui che ha coscienza. Ovviamente, una coscienza pura che agisce moralmente senza usare alcun mezzo per uno scopo, come diceva Kant. La domanda che sorgerebbe da questo punto di vista, però, sarebbe la seguente: una coscienza pura esiste davvero o può esistere? In caso contrario, cosa si potrebbe fare?

La formulazione di tali domande ci determina a pensare il non-pensiero stesso perché normalmente e nei limiti di una logica quotidiana non pensiamo a una coscienza pura, ma solo alla coscienza in quanto tale. Oppure la coscienza non deve essere pura per essere coscienza? Ma se abbiamo questa pretesa di purezza, è possibile chiedere all’uomo ciò che non può essere, cioè ciò che Dio non chiederebbe, perché se vogliamo che l’uomo diventi puro nella sua coscienza, è come se glielo permettessimo raggiungere la perfezione che solo Dio possiede. Quindi, una coscienza pura significherebbe una supermoralità, che l’uomo nella sua condizione terrena non ha modo di imparare. Ma questa impossibilità non gli impedisce di deificarsi perché la missione principale dell’uomo è la propria spiritualizzazione poiché è stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Pertanto, dal momento della creazione siamo stati dotati dei semi della perfezione e quindi abbiamo la possibilità di divinizzarci, poiché gli animali vengono umanizzati, i vegetali sono animali e i minerali sono vegetati.

Poiché esistono tutte le possibilità sopra menzionate, si capisce che l’uomo gode soprattutto di una profonda indulgenza da parte di chi lo ha concepito perché l’uomo stesso si definisce alla luce dei propri limiti che nel tempo può conoscere e superare. Non a caso, commettiamo errori per imparare e possiamo rinascere per errore.

Tornando al problema della comprensione e dell’indulgenza di cui beneficiamo e di cui abbiamo anche pretese, viene lanciata un’altra sfida del pensiero: fino a che punto la comprensione e l’indulgenza contribuiscono alla costituzione di una coscienza di dignità? Dal momento che vogliamo essere perdonati se abbiamo peccato, poiché il mondo stesso in cui viviamo ha il diritto di continuare la sua esistenza nonostante i miracoli che ha schiacciato, perché non possiamo assumerci la responsabilità del perdono? Dell’altro? Pertanto, la mancanza della capacità di perdonare e di comprendere le cose in sé che dolcemente ci circondano conduce all’uomo senza dignità.

Perdono e dignità: gli ingredienti della vera natura perfettibile che capisce dove si trova, che comprende che deve sempre compiere passi verso la perfezione ontologica, che, in un paradigma teologico, noi intendiamo come salvezza. La mancanza di perdono ha portato al ciclo di violenza nella storia, al tumulto morale delle classi sociali e, ultimo ma non meno importante, all’incapacità di vedere oltre la vista. Non perdonare significa incoraggiare diversi venditori ambulanti di adozione, ma perdonare non significa permettere il perpetuarsi degli errori e la volontà del male. Al contrario, il perdono contribuisce al discernimento dell’anima per la lotta contro il male con la propria coscienza del bene regolata dalla dignità del dovere verso se stessi e verso l’altro.

Notiamo, quindi, che la dignità ha molti significati, ma non può essere definita in alcun modo perché le grandi virtù non hanno bisogno di alcuna definizione. Sono semplicemente stati di cose che per alcuni rappresentano una vocazione, mentre per altri possono al massimo rappresentare curiosità teoriche o concettuali. Ma come scrivere ancora un manifesto per una coscienza della dignità? Semplicemente accettando l’imperativo di cambiare l’interno per agire con dignità e moralità in situazioni che lanciano sfide e dilemmi etici. Chi non può imparare a dimorare in se stesso perde il senso di saggezza positiva che si basa sulla speranza e sull’equilibrio. Il deficit di dignità deriva dall’impossibilità di riconciliarsi con se stessi, che porta ad un comportamento codardo, violento e reazionario nei confronti della persona dell’altro, che spiega abbastanza bene la coscienza ridotta in un mondo di ignobile maggioranza.

Tudor Petcu

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