
da Ortodossia.it, sito ufficiale della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e Malta.
Pubblichiamo gli interventi di don Alberto Cozzi e dell’archimandrita Evangelos Yfantidis pronunciati nell’incontro tra presbiteri, organizzato dall’Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e Malta e l’Arcidiocesi Cattolica di Milano
(28-30 gennaio 2015).
Don Alberto Cozzi
Nato a Rho (MI) nel 1963, è sacerdote della Diocesi di Milano dal 1987.
Ha perfezionato i suoi studi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, ottenendo la Licenza con un lavoro sulla Trinità nel commento ai simboli di fede di Ambrogio e Agostino (diretta dal prof. K. Becker nel 1989) e successivamente conseguendo la Laurea in Teologia nel 1997 con la testi «La centralità di Cristo nella teologia di L. Billot» (diretta dal prof. J.M. McDermott).
Insegna teologia sistematica nel Seminario Arcivescovile di Milano dal 1991, all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano dal 1997 e alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale dal 2003. Dal 2005 al 2010 ha insegnato anche «Teologia delle Religioni» in Seminario e presso l’ISSR di Milano. È stato parroco di Galliate Lombardo (VA) dal 2002 al 2008; dal 2008 è professore straordinario della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.
Ricopre la carica di Direttore del Ciclo Istituzionale della Facoltà Teologica di Milano e dal settembre 2011 è preside dell’ISSR di Milano.
Una delle nuove frontiere presso le quali l’ecumenismo di base, inteso come esperienza vissuta, potrà trovare ampi spazi di crescita è sicuramente la condivisione della diagnosi sulla situazione umana e culturale in cui oggi viene trasmessa e comunicata la fede. Diventa importante sia ascoltare con stima e rispetto la percezione che altre confessioni cristiane hanno della condizione umana attuale, con le possibilità e le resistenze della coscienza delle persone di fronte all’esperienza religiosa, sia condividere le strategie pastorali per rispondere alle sfide che si presentano nella trasmissione della fede e nella comunicazione del Vangelo.
Come semplice contributo a questo scambio di preoccupazioni pastorali ed evangelizzatrici, proponiamo alcune considerazione sui due termini chiave del titolo assegnato, ovvero l’idea di «minoranza» e il concetto di «post-cristiano».
1. Essere cristiani oggi in una condizione di minoranza
Occorre chiedersi se la condizione di minoranza vada intesa come sconfitta, fallimento, decadenza oppure come un dato teologico, ossia come qualcosa che rimanda all’agire di Dio nella storia. Se letta in questa seconda prospettiva, la condizione di minoranza può essere intesa a partire dalla nozione biblica di «resto d’Israele». Il tema è ampiamente presente nella letteratura profetica, laddove il giudizio del Dio fedele chiede al popolo una conversione per continuare ad esistere come popolo di Dio, segno della sua elezione e benevolenza, luce delle nazioni (Amos 5,15; 9,8-10; Isaia 1,25-28; 4,3-4; 6,3; 7,9; 8,16-18, 10,20-21; Michea 4,7; 5,6-8; Geremia 40,11; 42,15; 44,12).
1.1. Il «resto salvato» in Paolo
Data la vastità del tema e delle sue riletture profetiche e storico-salvifiche, ci limitiamo a leggere due passi di Paolo, presi dai complessi capitoli 9-11 della lettera ai Romani. In questa sezione, l’apostolo delle genti ragiona sul destino del popolo eletto, Israele, che non ha accolto l’annuncio del Vangelo se non in una piccola minoranza. Che ne è delle promesse di Dio? Cosa pensare dell’efficacia della sua grazia?
Una prima ricorrenza del termine si trova in Rm 9,27-28, dove si cita esplicitamente Is 10,22-23:
Se anche il numero dei figli di Israele fosse come la sabbia del mare, solo il resto sarà salvato; perché con pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sulla terra.
Il contesto del capitolo 9 sta cercando di interpretare il fatto che la maggioranza di Israele non ha accolto il Vangelo di Gesù Risorto quale compimento delle promesse di Dio. Eppure proprio a Israele appartengono le promesse, l’elezione, le alleanze, la legislazione… Di fronte a questo fallimento scandaloso, Paolo ci ricorda che il rapporto tra promessa di Dio e compimento non è garantito dall’agire umano, dalle possibilità delle opere dell’uomo (la carne), quanto invece dalla grazia di Dio, che a volte fa percorsi strani, come nella predilezione del minore o secondogenito rispetto al primogenito (Giacobbe ed Esaù). In questa logica di grazia, custodita dalla fede e non dalla legge, Paolo riprende la citazione di Isaia, in cui si stabilisce un chiaro nesso tra un resto salvato e l’efficacia piena e rapida dell’agire salvifico di Dio. Quindi la pienezza dell’azione divina di salvezza, che realizza la sua Parola, non va legata a una logica di maggioranza: «con pienezza e rapidità il Signore compirà la sua Parola» proprio salvando «un resto». L’azione di Dio è efficace e fedele non per i grandi numeri. È forse la logica della carne e non della grazia che cerca l’efficacia dell’azione divina nella maggioranza.
Il capitolo 10 fa una sorta di pausa per precisare che l’apparente fallimento di Dio non può essere legato alla difficoltà della Parola del Signore: non si tratta infatti di verità nascoste nei cieli o sepolte negli inferire, ma di un annuncio che è posto sulla bocca e nel cuore di chi crede (Rm 10,8-10).
Quindi, nel capitolo 11, ricompare il tema del «resto salvato» in una citazione dell’episodio di Elia sul monte. Riprendendo il dialogo mistico del profeta con Dio, Paolo fa notare l’errore di Elia nel ritenersi l’unico superstite del popolo fedele, che crede in JHWH:
Che cosa gli risponde però la voce divina? Mi sono riservato settemila uomini, che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal. Così anche nel tempo presente vi è un resto, secondo una scelta fatta per grazia (Rm 11,4-5).
Dio mantiene la sua promessa e si prepara un popolo santo e puro, lavorando discretamente nei cuori delle persone. Anche qui non è questione di grandi numeri né tanto meno di maggioranze o minoranze. È questione di cuore e fedeltà interiore. Nei versetti successivi, Paolo cerca di spiegare la strana strategia di Dio: ha lasciato inciampare Israele, ha lasciato cadere il popolo eletto per creare uno spazio all’annuncio del Vangelo salvifico alle genti; lo ha fatto però non per abbandonare il suo popolo, quanto piuttosto per farlo ingelosire e provocarlo al ritorno, in una nuova logica di fede. È nota, per la sua forza, la domanda retorica che risuona a questo punto:
Ora io dico: forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no! Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta alle genti, per suscitare la loro gelosia. Se la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza per le genti, quanto più la loro totalità! (Rm 11,11-12)
La conclusione di questo ragionamento assume la forma di un grido di speranza, che apre lo sguardo addirittura sul destino di risurrezione:
Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti? (Rm 11,15)
Il compimento, per grazia, dell’azione di Dio spiazza le attese dell’uomo “secondo la carne”, rimanda alla fedeltà imprevedibile ma sicura ed efficace di Dio e mantiene aperta la speranza nel compimento futuro in una vita nuova, quella che rigenera ciò che sembra perduto al di là della morte. L’agire di Dio non si affida alle masse, ai grandi numeri, ma alle vie dell’interiorità che rimandano alla grazia divina. Ciò che c’è in gioco è una «vita dalla morte», qualcosa di inaudito, che sta al di là dei calcoli e delle possibilità mondane e ci raggiunge nei cuori di chi crede.
1.2. Pienezza e limite in «Evangelii Gaudium»
Il curioso nesso tra pienezza della parola di Dio ed esperienza del limite, che emerge dalla citazione di Isaia 10,22s in Romani 9, Richiama alla nostra attenzione una profonda pagina di papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Leggiamo al numero 222, dove si sta affrontando il tema della società civile a servizio del bene comune:
Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti. Il “tempo”, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio.
Traducendo questa intuizione all’interno del nostro percorso ci pare di potere raccogliere la seguente tentazione: la tensione tra la pienezza del dono di Dio e la limitatezza delle sue realizzazioni storiche, porta molti ad assumere una logica spaziale: tanti o pochi, estesi o limitati… È una logica che rimanda a dinamiche di occupazione di spazi e quindi ultimamente a una logica di potere: quanti siamo? Dove siamo? Abbiamo in mano postazioni strategiche? Quanto contiamo? Una simile logica, però, non corrisponde a quella dell’azione divina di grazia. Qui è una questione di cuore e di fedeltà. Quante volte anche nella Chiesa – possiamo dirlo onestamente – si usano logiche di potere: chi è maggioranza? Chi conta di più? Chi ha più potere e risorse? È una logica spaziale e quantitativa che non corrisponde al modo di agire di Dio. Qui si tratta di fermento, di qualità di esperienza della grazia, di interiorità.
Papa Francesco, nel numero successivo (223), raccomanda di superare simili tentazioni curando «processi di formazione di un popolo nuovo». Si tratta di un tipo di azione più sensibile alla logica del tempo che dello spazio e quindi disponibile a immaginare percorsi sulla lunga distanza, a lunga scadenza: si tratta di creare processi che formino una coscienza nuova di popolo, fecondando la pasta di un’umanità nuova:
Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che possedere spazi… Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e che coinvolgono nuove persone e gruppi che le porteranno avanti…
I «tempi dei processi» indicano la sfida di un cristianesimo di minoranza, che non è ossessionato dai numeri e dagli spazi, bensì preoccupato dei dinamismi di vita nuove immessi nel tempo. Ma il tempo è solo di Dio e della sua grazia.
2. Il contesto culturale «post-cristiano»
L’idea di una grazia di Dio che realizza in pienezza la sua parola spiazzando le attese o pretese dell’uomo e attivando processi di formazione di un popolo nuovo che cammina nella storia verso un compimento futuro che sarà vita nuova risorta, ci può aiutare a interpretare il senso di quest’epoca «post-cristiana». Soffermiamoci sul termine. Nella radice del termine occorre forse cogliere quest’azione di grazia che spiazza e chiede percorsi nuovi, processi di formazione di un popolo nuovo. In effetti, il prefisso “post” può essere inteso diversamente.
2.1. «Al di là»
Può significare «al di là» del cristianesimo, in senso polemico ossia come superamento del cristianesimo da parte di una cultura nuova, illuminata e scientifica, che ha reso vecchio il mondo cristiano o inattuale. In questo senso, ossia come superamento polemico, si muovono le varie diagnosi sulla secolarizzazione e laicizzazione della cultura e della società moderna. «Progresso» significherebbe, per costoro, superamento della religione e della fede. Di fatto, però, il bisogno religioso non è stato superato e annullato, tutt’altro. Vi sono molti segni della sua permanenza. Quindi il termine «post-cristiano» non può significare un superamento che chiude il cristianesimo nel passato. Indica invece una condizione nuova in cui i cristiani devono fare i conti con gruppi di persone che ritengono di essere ormai al di là del cristianesimo, eppure sono impegnate ancora a dialogare con la sua massiccia presenza nel mondo. Ciò significa per i cristiani che nel contesto post-cristiano devono tenere aperto un confronto cordiale con chi li vuole superare o intende mostrare la loro inutilità. La fede è chiamata a confrontarsi con l’ateismo e il secolarismo, in modo nuovo. Tutto questo crea una situazione di notevole tensione, quasi di conflitto tra fede e cultura, esperienza religiosa e dinamiche di secolarizzazione. Si tratta di tensioni che si scontrano nel cuore degli stessi credenti, nei loro stili di vita e non solo tra gruppi sociali diversi. Ma tutto ciò rilancia in maniera più drammatica la questione dell’identità: chi è il credente oggi? Cosa lo caratterizza? Quali i suoi beni propri? Qual è il valore aggiunto della fede nell’esperienza di vita? In questa tensione emerge la sfida delle società laiche a creare condizioni tali per cui per cui una persona di fede non debba rinunciare a qualcosa della propria fede per essere pienamente cittadino di questo mondo e viceversa non ci si debba sentire meno cittadini perché credenti (sul posto di lavoro, nei ritmi delle feste, nella possibilità di incontrarsi e pregare, nella vita culturale…).
2.2. «Dopo»
In seconda battuta il “post” potrebbe indicare un «dopo l’era cristiana», nel senso di un suo frutto ovvero di una trasformazione inscritta nel suo processo di crescita. In tal senso molti vedono nella situazione attuale un frutto maturo di quei valori e di quelle istanze antropologiche che sono al cuore del cristianesimo: la scoperta della dignità della persona umana, l’inviolabilità dei suoi diritti di creatura amata in modo speciale da Dio, il suo dominio sul creato, la sua sete di pace e giustizia… A questo livello la sfida del mondo post-cristiano assume talvolta la forma di una rivendicazione polemica: la cultura laica post-cristiana ritiene di aver realizzato le istanze autentiche del Vangelo più e meglio di quanto riescono a fare le Chiese tradizionali, prigioniere talvolta di regolamenti, burocrazie, dinamiche di potere e vecchi schemi, che rendono impossibile l’apertura piena alle nuove condizioni di vita. Il sospetto è che nella sua forma storica attuale la fede non riesca ad abitare il mondo complesso di oggi in modo pieno ed adeguato. Un esempio di questo sospetto si trova nelle istanze, soprattutto tipiche del mondo riformato, di «inter-confessionalità» o «trans-confessionalità»: in società pluraliste e complesse la fede non può essere vissuta in base agli schemi e alle divisioni ereditati dalla storia, dalle dispute confessionali del passato, che oggi risultano a molti incomprensibili. Si dovrebbe re-inventare il modo di pensare e vivere la fede, in modalità più adeguate al modo di vivere post-moderno. La sfida, a questo livello, non è da poco. Pone una domanda vera e urgente: quanto la tradizione da cui riceviamo la fede e in cui ci identifichiamo, aiuta veramente ad abitare la realtà di oggi, a dare il giusto senso alle relazioni tra persone di differenti fedi e religioni, a creare comunione nella carità? Quale preparazione è richiesta al cristiano perché riesca a interpretare il mondo utilizzando i tesori della sua tradizione confessionale?
2.3. «Altrove»
Un terzo significato del “post”, vicino al secondo, mette in gioco l’idea di un «altrove rispetto al cristianesimo». «Altrove» significa ad esempio che la scena religiosa rimane aperta, poiché l’uomo ha bisogno del mistero, della fede, della trascendenza. Ma tale scena sarebbe dislocata altrove rispetto al cristianesimo tradizionale: lo stesso vale per l’esperienza del sacro, il bisogno di spiritualità e quant’altro. In questa dislocazione della domanda di senso, il cristianesimo deve con umiltà rispiegare le sue buone ragioni, il «perché» possa ancora considerarsi un modo originale ed efficace di realizzazione della vocazione spirituale dell’uomo. In sostanza, l’impressione complessiva che si ricava è quella di uno spaesamento, di un essere spiazzati o dislocati altrove: è dislocato il funzionamento della società e della cultura e quindi i processi e i modi di trasmissione della fede; è dislocato il luogo di apprezzamento della verità evangelica e quindi del ruolo dei credenti nella società; è dislocato il modo di strutturazione della propria identità.
2.4. La sfida per i cristiani di oggi
In questo quadro di “déplacement” del cristianesimo (non solo esterno ma anzitutto interno, ovvero quanto al suo funzionamento nelle coscienze e nelle relazioni comunitarie), la sfida dell’essere cristiani oggi non è da poco. Le tre possibili interpretazioni del “post-cristiano” ci aiutano a identificare come segue le dimensioni della sfida: si tratta di rigenerare un’identità (non più scontata e pacifica) rileggendo la propria tradizione (in quegli elementi strutturali utili oggi) in dialogo con la cultura attuale e le sue pretese (senza conflittualità o disprezzo).
L’attenzione principale va posta sul dialogo con la cultura attuale, che pone domande a cui si deve rispondere mostrando la ricchezza di senso inscritta nella tradizione da cui si proviene e in cui si vuole inserire il credente. È importante, a questo livello, che si raccolga la sfida a verificare se e in che misura la fede è in grado di leggere il mondo attuale e di dare senso alle esperienze fondamentali dell’uomo nel contesto attuale (senso dell’amore, della fatica, della vita e della morte, dell’educazione…).
In tale dialogo non si deve però perdere di vista la ricchezza della propria tradizione, cercando sempre di mostrare come questa aiuti ancora a interpretare le domande del contesto attuale, rileggendole alla luce dell’esigenza di verità a cui i nostri padri hanno cercato di rispondere. Una comunità di tradizione non insegna solo delle cose da fare o da dire, ma nelle pratiche e nelle dottrine che trasmette vuole far sentire ai giovani come e in che senso i padri, proprio in quelle pratiche e dottrine, hanno corrisposto all’esigenza di verità inscritta nel Vangelo di Gesù Cristo. E questo sforzo di corrispondere all’esigenza evangelica di verità ha aperto spazi di vita inattesi e dinamiche di comunione piene di senso e affetto giusto. Così le nuove generazioni scoprono che non devono solo ripetere cose note, ma piuttosto sono chiamati a riprendere e ascoltare, proprio in quelle pratiche e dottrine, l’esigenza di verità che ha strutturato il mondo dei padri, permettendogli di costruire un certo stile di vita e una determinata visione della realtà.
È proprio la capacità di riattivare nella tradizione questa esigenza di verità che permette al credente di con-costituirsi come soggetto di esperienza, assumendo un’identità. Diventerà, così, un credente del 2000, capace di corrispondere all’esigenza di verità evangelica in dialogo col suo tempo. Tale identità è quella dei «figli di Dio», che portano l’immagine del Creatore, inscrivendola in dinamiche di comunione e di trasfigurazione del creato, della natura ma anche del dolore e della sofferenza, alla luce di una speranza più grande, immensa, in cui «geme lo Spirito» della vita nuova (Romani 8).
Rigenerare un’identità, rileggendo una tradizione ricca in dialogo con la cultura. Sono le dimensioni della sfida per i cristiani di oggi. Ma forse sono la sfida che ha appassionato i cristiani di ogni tempo.
p. Evangelos Yfantidis
Il Rev.mo Vicario Generale dell’Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e Malta p. Evangelos Yfantidis, Archimandrita del Trono Ecumenico, è nato a Kavala (Grecia) il 14 ottobre 1975.
Dopo aver frequentato il Liceo Ecclesiastico della propria città, si è laureato presso la Facoltà di Teologia dell’Università Aristotele di Salonicco, dove ha anche conseguito un Master in Teologia Dogmatica e Storia della Chiesa. Nel 2006 ha ottenuto un primo Dottorato di Ricerca presso la stessa Università, con una tesi dal titolo “Patriarcato Ecumenico e potenze politiche: dalla Conferenza di Losanna all’elezione del Patriarca Basilio III”, pubblicata nel 2014. Presso la Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana di Roma si è specializzato in storia contemporanea, conseguendo una Licenza e nel 2012 un secondo Dottorato di Ricerca con la tesi “Chiesa Ortodossa e comunità internazionale: Il contributo del Patriarcato Ecumenico alle relazioni interreligiose (1971-2005)”.
Ordinato Diacono e Presbitero da S. Em.za Rev.ma il Metropolita Gennadios Zervos, Arcivescovo Ortodosso d’Italia e Malta, ha servito diverse parrocchie in Italia, tra le quali Perugia e Milano, ed è attualmente Parroco della storica Comunità dei Greci Ortodossi a Venezia, Rettore della Cattedrale di San Giorgio dei Greci a Venezia e Vicario Generale dell’Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e Malta. Si è occupato in modo particolare della pastorale giovanile e famigliare.
Eminenza Reverendissima, sorelle e fratelli carissimi,
Negli ultimi decenni il cristianesimo nel suo insieme ha dovuto affrontare, soprattutto nel nostro continente, un fenomeno potente, la scristianizzazione della società. Il fenomeno in effetti oggi è così intenso che in molti casi non solo in intere città, ma anche nelle stesse nazioni un tempo di pura tradizione cristiana, i cristiani risultano essere divenuti una minoranza e la maggioranza delle persone si dichiarano atee o indifferenti al culto cristiano.
Con l’espressione “scristianizzazione della società” si intende lo sforzo cosciente e organizzato, da parte di persone e organizzazioni, volto a sostituire la fede e la vita cristiana con principi etici che stabiliscono standard specifici di comportamento umano, i diritti umani, come se questi non venissero esplicitamente propugnati dal Cristianesimo. Tutti noi conosciamo le parole del Signore, degli Apostoli – soprattutto san Paolo – e dei Santi Padri – particolarmente i Cappadoci – in merito alle questioni relative al diritto inalienabile alla vita, ma anche i diritti alla libertà, alla giustizia, all’uguaglianza, alla salute, al lavoro, all’istruzione, etc.
L’inizio della diffusione sistematica dello sforzo teso alla scristianizzazione potrebbe risalire all’epoca dell’Illuminismo europeo (fine 17° secolo / metà 18°); questo nuovo atteggiamento, anche se diede un grande contributo positivo all’evoluzione e alla promozione della scienza, produsse una filosofia che svalutava i precedenti periodi storici, come per esempio il periodo bizantino, considerando la propria epoca come il culmine dell’esperienza di tutto il genere umano.
Tre fenomeni legati l’uno all’altro, la “globalizzazione”, la “secolarizzazione” e il “sincretismo religioso” che si sono verificati nella società europea dal secolo dei lumi in poi, fiorendo particolarmente negli ultimi decenni, hanno contribuito a promuovere la scristianizzazione della nostra società.
La globalizzazione, che ha iniziato a manifestarsi soprattutto a partire dalla metà del secolo scorso, è un processo complesso, che pur aprendo all’umanità contemporanea meravigliose possibilità e prospettive inaspettate, come ad esempio la facilitazione nella comunicazione tra le persone, la rapida circolazione di merci e informazioni, il superamento delle varie discriminazioni, lo sviluppo mondiale della solidarietà e gli sforzi comuni per affrontare i problemi globali e molto altro, tuttavia provoca anche sconvolgimenti imprevisti, tra cui l’imposizione di intransigenti leggi di mercato, la trasformazione della persona umana in insaziabile consumatore, il culto dell’ego e l’individualismo, l’idolatria del denaro, la voglia di denaro facile, come anche la perdita della persona umana come valore supremo.
La società in questo modo viene più facilmente guidata verso secolarizzazione, verso cioè quel sistema che, pur preesistente, si è basato sulle idee dell’Illuminismo allo scopo di interpretare la vita dell’uomo a partire da principi etici non correlati alla fede in un qualsiasi dio, con la conseguente perdita da parte della religione di ogni ruolo istituzionale e di ogni influenza nei vari ambiti della vita sociale, politica e culturale.
Ha trovato quindi più spazio lo sviluppo del fenomeno del sincretismo religioso, la cui prima comparsa risale al periodo ellenistico, ma che negli ultimi secoli ha professato – e questo è positivo – la convergenza delle religioni in termini di comprensione reciproco dando risalto ai loro punti in comune come il significato e l’esistenza di Dio e la loro utilità per il bene comune della società, ma in una dinamica tale da snaturare sostanzialmente lo spirito, la condizione e le identità delle religioni.
Accompagnato da questi fenomeni che dominano la riflessione umana e la vita dal secolo scorso, il processo di scristianizzazione della società è divenuto un fatto doloroso. Molte persone sono state portate all’indifferenza religiosa, non interessando loro né l’esistenza di Dio, né le religioni in se stesse, poiché tali questioni non sembrano riguardarle personalmente o da un punto di vista esistenziale, avendo stabilito come unico criterio per ogni cosa il proprio ego. Altri non accettano l’esistenza di entità soprannaturali senza prove, stimano come un valore il non credere e la ricerca della verità attraverso la ricerca positiva, le prove scientifiche e la logica, definendosi “atei”.
Cercando, tuttavia, la causa fondamentale che ha condotto persone e istituzioni ad allontanarsi dalla verità cristiana e a sostituirne i valori con principi etici (es. i diritti umani), a tal punto da ridurre i cristiani ad una minoranza in quelle società una volta interamente cristiane, non dovremmo localizzarla al di fuori del cristianesimo stesso, cioè fra i battezzati. Sarebbe come fare gli struzzi. L’Arcivescovo d’Italia e Malta, il Metropolita Gennadios, scriveva alla fine del 2014, osservando coraggiosamente la dura realtà degli ultimi decenni: il popolo di Dio è rimasto essenzialmente “non catechizzato”. Il risultato di questa situazione è l’ignoranza, la conoscenza imperfetta e la confusione dei battezzati circa la verità cristiana. Questo è ciò che dice anche san Giovanni Crisostomo per i cristiani non catechizzati della sua epoca: “Grande abisso e profondo baratro è l’ignoranza delle Scritture, grande tradimento della salvezza stimare un nulla le leggi divine. Questa cosa genera eresie, introduce disordine nella vita, capovolge tutto”.
L’ignoranza, dunque, della verità cristiana, ha avuto come conseguenza, non solo negli anni del Crisostomo, ma anche negli ultimi decenni, il fatto che l’uomo ha smesso di vivere quotidianamente gli insegnamenti cristiani e di applicarli nel proprio ambiente sociale. Così la sua fede in Dio non è riuscita per decenni ad apportare alcun cambiamento significativo nella sua vita e di conseguenza neppure nella società. È persino possibile frequentare regolarmente le funzioni religiose, fare la confessione e prendere la comunione, ma in modo totalmente individualista e ipocrita, ossia senza umiltà, sincerità, pazienza, benevolenza, gioia, semplicità e soprattutto amore disinteressato. Se non vive un rapporto personale con Dio, il risultato è che non può creare relazioni genuine con le altre persone.
Un secondo punto, importante quanto quello della corretta o mancata catechesi dei cristiani, e che non deve sfuggire alla nostra attenzione, è la tendenza alla secolarizzazione nella Chiesa stessa, riscontrabile molto spesso in tutte le comunità cristiane. Naturalmente, quando si parla di secolarizzazione nella Chiesa, non intendiamo la secolarizzazione della Chiesa come Corpo di Cristo, che mira a guarire l’uomo e condurlo alla divinizzazione, ma la secolarizzazione dei membri della Chiesa, in primo luogo dei sacerdoti e dei loro collaboratori. In questo senso, la Chiesa è secolarizzata quando si trasforma in un istituzione mondana, acquisendo modalità di esprimersi ed agire mondane, quando viene considerata un luogo ideologico e morale dove viene svolta soprattutto una attività sociale e caritativa. Questo genere di Chiesa secolarizzata non si interessa a come l’uomo dall’immagine possa giungere alla somiglianza divina, ma si preoccupa dell’esecuzione di un progetto sociale, e si sviluppa sotto forma di un sistema moralistico. Questa Chiesa secolarizzata non è più uno spazio vitale dove è vinta la morte, con tutte le sue conseguenze, che sono le malattie, le passioni, l’incertezza e l’insicurezza; e, naturalmente, non può condurre alla divinizzazione.
Questo cristianesimo – i cui membri, non catechizzati e secolarizzati, hanno una minima esperienza del messaggio di Gesù – è la realtà cristiana che incontrò il grande politico e filosofo indiano Mahatma Gandhi, il quale disse: “Mi piace il vostro Cristo. Non mi piacciono i vostri cristiani. I vostri cristiani sono così diversi da Cristo”.
Questa affermazione di Gandhi, che riflette certamente il comportamento dei cristiani della sua epoca (1869 – 1948), come ha sottolineato egli stesso, è in netto contrasto con quanto osservato nel cristianesimo dai grandi imperatori e santi Costantino e Teodosio, che lo scelsero per il loro Impero, quando il cristianesimo era ancora una minoranza, all’interno di una società tradizionalmente pagana o ebraica.
Il professor p. Ioannis Romanidis commentando il comportamento di questi due uomini, Costantino e Teodosio, e dei loro successori, ha dichiarato: “Dobbiamo avere una chiara immagine dei contorni entro i quali la Chiesa e lo Stato hanno visto il contributo degli uomini divinizzati nella terapia della malattia religiosa che perverte la personalità umana attraverso la ricerca dell’eudemonismo ora e dopo la morte per comprendere la principale ragione per cui l’impero romano accorpò a livello amministrativo la Chiesa Ortodossa. Né la Chiesa né lo Stato videro la missione della Chiesa come la semplice remissione dei peccati dei fedeli, per entrare in paradiso dopo la morte. Ciò equivarrebbe a un perdono medico delle colpe dei malati per la loro terapia dopo la morte. Sia la Chiesa, sia lo Stato sapevano bene che la remissione dei peccati era solo l’inizio di un trattamento della malattia che consisteva nella ricerca dell’eudaimonismo da parte dell’umanità. Questo trattamento iniziava con la purificazione del cuore e giungeva alla restaurazione del cuore alla sua funzione naturale dell’illuminazione e perfezionava tutto l’uomo nella sovrannaturale condizione di glorificazione, cioè la deificazione. L’effetto di questa terapia e di questo perfezionamento non consisteva solo in una adeguata preparazione alla vita dopo la morte, ma anche nella trasfigurazione della società, qui e ora, da gruppi di individui egoistici ed egocentrici in una “κοινωνία”, società – comunione di uomini con amore disinteressato, la quale non persegue il proprio interesse”.
Basandoci su quanto detto finora, si pone fortemente la questione di come fossero i cristiani dei primi secoli e come la loro comunità riuscì ad apparire agli occhi dei Sovrani dell’Impero Romano come il prototipo ideale per la “trasfigurazione della società”, qui e ora, da gruppi di individui egoistici e egocentrici in una “κοινωνία”.
La risposta a questa domanda penso possa fornirla la famosa “Lettera A Diogneto”, di autore ignoto, giustamente considerata una gemma letteraria del secondo secolo. La lettera è dedicata in gran parte alla descrizione dell’autentica vita in Cristo dei battezzati e risale ad un’epoca in cui i cristiani erano, come oggi, una piccola minoranza. Si tratta di una breve e concisa “etica”, una delle prime in ordine cronologico nella letteratura cristiana, indirizzata ad un pagano, colto e benestante, per invitarlo ad abbracciare il cristianesimo, affinché diventi così un cittadino del regno dei cieli. Il messaggio centrale della lettera è che il cristianesimo è quella nuova realtà religiosa, base per una nuova società e fondamento di un nuovo comportamento del suo cittadino. Tre punti fondamentali di questa lettera rispondono alla nostra domanda.
La relazione tra i cristiani e il mondo: Prima di tutto i cristiani sono ben consapevoli che la loro religione non è basata su ragioni filosofiche o ideologiche (V,3), ma sull’insegnamento del Signore, che è una parola ontologica che trasfigura il mondo. I cristiani sono l’anima del mondo, “reggono il mondo”, sostengono il mondo (VI,3). Sono cioè il “piccolo impasto” (cfr. Cor. 5,6), che operano silenziosamente nel corpo dell’umanità, lo ispirano, lo vivificano e lo trasformano con amore. Questo compito è dato loro da Dio stesso (VI,10), e dimostra che i cristiani non solo non costituiscono un pericolo per il mondo, ma che la loro presenza e il loro agire affermano la volontà di Dio di proteggere il mondo che Lui stesso ha creato. In effetti, un cristiano degno di questo nome, da discepolo degli apostoli diventa a sua volta un maestro delle nazioni, al fine di far risplendere in tutto il mondo la luce della verità e il messaggio di amore del Signore (XI,1).
La relazione tra i cristiani e la loro patria e le sue leggi: I cristiani amano la loro patria, ma non idolatrano la nazione, sentendo in tutto il mondo la presenza di Dio (V,5). Essi risiedono sia in patria sia in quelle città in cui la vita li ha condotti, ma, al di là di ogni forma di nazionalismo (cfr. Gal. 3,28), vivono tutto il mondo come la loro patria e credono fermamente di essere abitanti provvisori del mondo, essendo la loro patria incorruttibile il cielo stesso (V,4-5; VI,8. Cfr. Fil. 3,20; Eb. 13.14). Vivono tutto alla luce del cielo, che è il Regno di Dio e tutti i loro interessi terreni, in qualsiasi area della loro vita, vengono visti sempre alla luce del loro interesse celeste, cioè la loro partecipazione nella gloria di Dio. Alcuni decenni più tardi San Giovanni Crisostomo proclamerà: “Non ti sei accorto che questa vita è una abitazione provvisoria? … Non sei cittadino, ma viandante e itinerante. Non hai nessuna patria. La vera patria sta su. Le cose presenti sono una via. Questa vita è un ostello” (PG. 52.401). I Cristiani partecipano alle attività comuni nelle città in cui risiedono, se però il luogo in cui risiedono non è ostile verso la loro fede. Quindi sopportano la vita pubblica come un martirio, “tutto sopportando come stranieri” (V,5). Inoltre – e questo è essenziale per i governanti di una città o di uno Stato – i cristiani vivono nella massima legalità, affinché con la loro migliore obbedienza superino le leggi dello Stato, che allora si dimostrano superflue, in quanto non vi sono delinquenti. E quale uomo politico non vorrebbe cittadini di questo genere, come anche una religione il cui insegnamento produce dei cittadini che si rivelano membri di uno Stato ideale, come era la Kallipoli di Platone, che però è rimasta solo un’utopia?
La relazione tra i cristiani e la società: Rispetto ai non battezzati i cristiani non differiscono per dati etnografici (lingua, costumi, stile di vita, luogo di abitazione, alimentazione), e non costituiscono un gruppo sociale indipendente (V,1-2). Sono a favore dell’istituzione familiare e rispettano la vita dei propri figli (V,6). Non frodano il prossimo, non si arricchiscono a scapito degli altri e non sono attaccati ai beni materiali (X,5). Cercano di vivere in modo spirituale, senza tuttavia esibire la loro pietà (V,8; VI,4). Anche se non hanno uno spirito mondano, tuttavia hanno una vita sociale, ma non ostentata, si divertono con prudenza e correttezza, e respingono i piaceri e per questo la gente del mondo li detesta (V,2,7; VI,3,5). Una volta che il cristiano comprende il piano della Divina Provvidenza e il rapporto d’amore tra Dio e l’uomo che può essere generato da esso, comincia ad amare il suo Creatore. Amando Dio, l’uomo diventa imitatore Suo e della Sua bontà (X,1-4). Siccome Dio è un Dio di amore per l’uomo, e l’amore di un uomo verso il suo prossimo rende l’uomo simile a Dio, il cristiano è imitatore di Dio e diventa colui che “porta i pesi del prossimo, benefica i deboli, dona a chi ne ha bisogno ciò che Dio gli ha fornito e diventa il dio di quanti ricevono” (X,6). I cristiani, poi, “amano tutti” (V,11), anche i loro persecutori (VI,6), anzi, se sono perseguitati per la loro religione, reagiscono con fede ed esultanza, dimostrando così in pratica l’esistenza di Dio (V, 11-17. Cfr. Ebr. 11,33 – 12,2).
Rispondendo alla nostra prima domanda, si presentano nuove domande, legate alla nostra epoca e al posto che il cristianesimo ha nella nostra società. Possiamo ancora noi cristiani tornare a questo stato originario come i primi cristiani? È possibile per noi cristiani, come minoranza, essere di nuovo un punto di riferimento per la società? In che modo? La profonda ed efficace evangelizzazione delle nazioni sembra l’unica risposta e l’unica soluzione al fenomeno della scristianizzazione della società. La Chiesa, lontano da qualsiasi impegno secolare, dovrebbe iniziare una lotta di catechesi, una “crociata di catechesi”, essenziale per l’uomo, alla riscoperta della nostra identità come una “nuova creazione” nella società. Per richiamare le parole del grande teologo russo p. Giorgio Florovsky, “il cristianesimo è entrato nella storia come un nuovo ordine sociale, come nuova dimensione sociale” e quindi “il cristianesimo agli inizi non era un dogma, ma una comunità”! La Chiesa deve proporre all’uomo di scegliere lo stile di vita, l’etica e i valori che provengono dal Vangelo, specialmente quelli di cui il mondo ha bisogno oggi, cioè la verità, l’amore e la giustizia e viverli e testimoniarli nella società con il proprio esempio. Così i nostri cristiani, non dimenticando che “un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta” (I Cor. 5,6), diventeranno ancora una volta “luce del mondo” e “il sale della terra”, così che quanti sono lontani da Dio vedano le loro “buone opere e glorifichino il Padre loro che sta nei cieli” (Cfr. Mt. 5,13-14,16).