
dal profilo facebook di fratel Ignazio de Francesco, monaco della Piccola famiglia dell’Annunziata.
Proponiamo due post dal profilo facebook di fratel Ignazio de Francesco sul rapporto tra fede e ragione nell’islam e sul prezioso servizio che l’ateo può rendere al credente e quello altrettanto importante che il credente può rendere all’ateo. Il titolo “Grazie a Dio, perché ci sono gli atei” non è dell’autore ma è nostro … ci sembra che oltre a tentare di introdurre i due acuti scritti di fratel Ignazio, ne colga quel pizzico di ironia necessaria per approcciarsi con rispetto ma anche con obiettività all’altrui identità culturale e religiosa.
Fede e/o ragione?
Sta facendo discutere l’incidente televisivo in un programma in onda su un canale egiziano. Vi si vede un ragazzo affermare placidamente di non credere in Dio e di non trovare alcuna prova convincente della sua esistenza. Il modo è garbato, persino nei confronti di quel Dio negato, al quale si riferisce rispettosamente chiamandolo “Rabbu-na”, nostro Signore. Il conduttore in giacca e cravatta s’infiamma invece di sdegno, denuncia l’assurdità intellettuale e l’empietà morale del suo giovane ospite, giunge a scusarsi con i telespettatori per lo scandalo scoppiato nel suo studio. Ma le parole più severe sono quelle di Mahmud ‘Ashur, già vice-rettore de al-Azhar, quindi un’autorità di altissimo livello dell’islam sunnita. Con toni pacati e un tratto di bonarietà paterna suggerisce al giovane di farsi visitare urgentemente da uno psichiatra. Il conduttore coglie l’idea al volo: chiede alla regia di mandare in onda uno stacco pubblicitario ed invita il giovane ateo a lasciare all’istante gli studi tv e precipitarsi al più vicino ospedale.
Ritengo sia utile indicare quelli che, a mio avviso, sono i nodi di pensiero che si celano dietro all’incidente. L’intenzione che mi guida è nient’altro che offrire un contributo documentario, per alimentare un confronto intelligente tra persone libere, in quella forma che caratterizzò anche la stagione d’oro della cultura islamica, rappresentata nella “Casa della sapienza” (Bayt al-hikma) di Bagdad.
Il primo nodo che intravedo è quello della potenziale coincidenza tra fede e ragione. Una delle risposte islamiche alle sfide della modernità, intesa come epoca del trionfo (almeno ideale o ideologico) della ragione è stata proprio quella di accentuare la natura razionale della fede. Lo esprimeva già con chiarezza un gigante del pensiero islamico come l’egiziano Muhammad ‘Abduh (m. 1905): l’islam non ha paura della ragione, né della scienza, anzi apre le porte a entrambe, perché entrambe attestano la verità dell’islam. Questa corrente si opponeva (e si oppone) a un genere di religiosità assai diffusa, carismatica e affettiva, una sorta di sufismo popolare accusato di alimentare superstizioni e l’attaccamento a “tradizioni cieche”, come la venerazione dei santi, morti e vivi. Via tutto questo! L’islam cammina con la ragione. Il Corano è un libro che interpella la ragione e abbonda di prove razionali dei dogmi: creazione, provvidenza, angeli, giudizio, paradiso e inferno ecc. Quanto ne basta per non avere alcun dubbio. Se di Agostino di Ippona si ricorda il celebre “credo per comprendere”, la corrente razionale dell’islam propone un radicale rovesciamento: comprendi per credere. Usa tutta l’intelligenza che hai e la fede sarà una conseguenza necessaria, anzi del tutto naturale dello sforzo razionale. È qui precisamente che il nodo di questa impostazione viene al pettine, come ci mostra bene ‘Abd al-Rahman al-Maydani, siriano e grande teologo contemporaneo (m. 2004), in una sua opera di larghissima diffusione, nota per equilibrio e ponderatezza. Dopo oltre cento pagine di dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio, afferma: «La prova dell’evidenza e la prova dell’intelletto sostengono l’esistenza di Dio, perciò credere è cosa obbligatoria a chiunque sia in possesso di un intelletto orientato a ciò dalle regole dell’osservazione. Chi ancora nega l’esistenza di Dio e ne dubita dopo avervi riflettuto e osservato, è una di queste due persone: un malfattore, ostinato, superbo, oppure un demente, privo della capacità di riflettere». (al-‘Aqida al-islamiyya, p. 138)
Ma c’è a mio avviso un nodo ancora più profondo e complesso: l’inserzione della religione nel codice genetico. Questione per nulla astrusa o confinata al dibattito tra gli specialisti, ma tema normale di predicazione e catechesi, compresa quella rivolta ai ragazzi nell’ora di religione delle scuole pubbliche. L’idea è che ogni persona sia “naturalmente monoteista”, musulmana per nascita, e i differenti orientamenti confessionali non siano dunque che illecite alterazioni del piano creaturale originario. Ecco cosa leggo nel manuale giordano di religione islamica, pubblicato un paio di anni fa, classe XI, p. 35: «Dio ha posto in ogni persona una natura da lui creata dalla sua nascita, cosicché la persona percepisce che questo cosmo ha un Creatore al quale bisogna sottomettersi, obbedirne gli ordini e ricorrere a lui». L’autorità scritturistica di riferimento è sura 30,30, che parla appunto di una “natura originaria” (fitra) data da Dio agli uomini: «Alza il viso alla religione, da vero credente secondo la natura prima che Dio ha dato agli uomini». Malgrado non manchino tra i grandi commentatori voci discordanti (ad es. al-Qurtubi) la maggioranza degli esegeti musulmani ritiene che il verso indichi una sorta di condizione innata di credente. Alla citazione di questo versetto segue il famoso hadith: «Non c’è bimbo che non nasca secondo la natura originaria (fitra), poi i suoi genitori ne fanno un ebreo, un cristiano o uno zoroastriano». Agli studenti può essere così trasmessa un’idea molto forte: biologia e religione tendono a coincidere, come se la seconda fosse in qualche modo inscritta nel codice genetico. Un diverso orientamento religioso può essere considerato contraddizione del piano creaturale.
L’ateismo può dunque essere concepito come un atto contro-natura. Significativo, in questo senso, un passaggio di una delle opere più tradotte e divulgate del grande pensatore pakistano Abu al-‘Ala al-Mawdudi (m. 1979): «L’uomo è nato e resta musulmano, in quanto obbedisce, automaticamente, all’ordinamento di Allah … Per contrasto con l’uomo di cui abbiamo, or ora, dato l’immagine, c’è l’uomo che, pur essendo musulmano per natura e tale rimanendo, inconsapevolmente, per tutta la sua vita, non esercita la sua ragionevolezza, la sua intelligenza e la sua intuizione per riconoscere il Signore ed il suo Creatore, ma, al contrario, si serve della sua libertà di scelta per negare la sua esistenza … l’uomo che nega Allah è kafir, “dissimulatore”, perché egli, con la sua incredulità, nasconde ciò che è inerente alla sua natura e alla sua anima, giacché la sua anima è, istintivamente, orientata verso l’Islam» (“Conoscere l’islam” tradotto dall’urdu, pp. 13-15).
Questi dunque sono i “nodi di pensiero” che intravedo nell’incidente del programma televisivo egiziano.
Il video è qui: https://www.facebook.com/inthenow/videos/984973484986354/?id=100003495147335
Per un patto tra atei e credenti
Dopo avere cercato di presentare nel modo più oggettivo possibile una certa posizione islamica, assai diffusa, sul rapporto tra fede e ragione, provo ora a esprimere ciò che penso su un argomento così cruciale, e per nulla avulso dalle nostre esistenze concrete.
Nella teologia islamica si trova dunque affermata non solo la piena coincidenza tra fede e ragione ma addirittura la natura “genetica” della religione, come se fosse un pezzo del dna. Così pensando, è giocoforza concludere che l’ateo, ma anche il “diversamente credente” sia una di queste due cose: moralmente perverso o demente. Come “diversamente credente” ritengo che questo modo di pensare non sia accettabile. Semplicemente perché non si dà nessuna dimostrazione scientifica dell’esistenza di Dio. Le “prove” (o più esattamente “segni”) fornite dalla teologia islamica sono sostanzialmente quelle offerte dalla teologia cattolica medievale, Tommaso d’Aquino: Dio come Motore Immobile, come Causa prima, come Essere Necessario rispetto a tutto ciò che è contingente, come Bene e Bellezza Suprema rispetto ai gradi di bene e bellezza osservabili nel mondo, come Uno Fonte dell’armonia del molteplice. Si tratta di “prove” (o meglio “segni”) di carattere logico, che per loro natura non consentono riscontri di laboratorio, quella verifica empirica indispensabile al “metodo scientifico”. È vero che anche la relatività e l’evoluzionismo sono solo teorie, ma una volta formulate consentono anzi impongono agli scienziati la ricerca di quei riscontri empirici che possono confermarle o smentirle. Dio, se mai esiste, sfugge a questo genere di dimostrazione, tanto in positivo che in negativo. Avendo detto questo in piena coscienza e possesso delle mie facoltà mentali, almeno così mi sembra, ritengo che chi la pensa diversamente abbia però il pieno diritto di dirlo. Ma deve anche accettare di lasciarsi contraddire. La libertà di espressione delle idee deve essere garantita a tutti, nessuno escluso, neppure al giovane ateo cacciato dallo studio televisivo egiziano per avere detto che “Dio non c’è”.
La cosa non finisce qui. Al di là del diritto di parola c’è un altro importante servizio che atei e credenti possono rendersi reciprocamente.
Di quella “accademia delle scienze” che è il taxi arabo ricordo una corsa al Cairo tra Zamalek e al-Azhar, durante la quale l’autista m’impegnò in una serrata discussione teologica. I suoi argomenti erano interessanti, ma così stringenti, così pressanti che a un certo punto provai a presentargli una prospettiva del tutto diversa, quella dell’ateo appunto: “Ma ti rendi conto che in Europa ci sono milioni di persone che ritengono che il mondo viene dai gas?”. Frenò bruscamente e mi guardò trasecolato: “Davvero? Milioni?”. Ripresosi dallo smarrimento iniziò a battere i pugni sul volante e gridare: “Fi Allah, fi!”. Dio esiste, Dio c’è. Pur rimanendo ammirato dalla carica di fede di quell’uomo, pensai che era in quella impossibilità non dico di confrontarsi ma neppure di rappresentarsi il “diverso” che si cela la radice del fondamentalismo. L’islam ha al suo interno risorse molto importanti per reagire positivamente a questo rischio: parole del Corano come “voi avete la vostra religione, io la mia”, “non c’è costrizione nella religione”, “chi vuole creda, chi vuole non creda”, “se il tuo Signore avesse voluto avrebbe fatto degli uomini una sola nazione”. Poi il sufismo-mistica, con la percezione viva che Dio stia al di là di qualsiasi ragionamento, e che persino quando diciamo “Unico”, egli lo è in un modo che noi non sappiamo. Ma al di là delle risorse della religione c’è appunto la presenza degli atei, una risorsa fondamentale per fare della religione una proposta bella e non un’oscura minaccia. Ricordo certe discussioni in carcere con i detenuti musulmani: quando l’ambiente si scaldava troppo e la difesa ad oltranza delle posizioni dei vari gruppi di credenti si trasformava in un muro invalicabile, interveniva un’atea, che aveva ascoltato attentamente tutti in silenzio: “Io penso che il mondo venga dai gas, ma quello che state dicendo è molto affascinante”. Quelle parole non mi sono mai sembrate distruttive della fede ma come un servizio di ecologia della fede, un modo di ricollocare la fede nel suo ambito proprio: fede appunto. Questo è il servizio che gli atei possono e devono rendere ai credenti. Poi c’è quello che i credenti possono rendere agli atei.
Attraversando in un tardo pomeriggio di giovedì il lungo corridoio semideserto della facoltà di lettere, università di Damasco, scorgo nella penombra il docente di pensiero arabo contemporaneo. Fine filosofo, appartenente a quella generazione di intellettuali arabi che sanno parlare, oltre la lingua madre, soltanto il russo. Tutta la sua formazione superiore è stata modellata nei lunghi anni trascorsi tra Mosca e Leningrado. Uno dei pochissimi arabi, tra quelli che ho conosciuti, che posso dire “atei”. Tra noi è nata una bella amicizia e so che mi vuol bene, come io gliene voglio, ma ero diventato il bersaglio preferito delle sue provocazioni antireligiose. In classe non me ne perdonava una. Mi aveva persino affibbiato il nomignolo di “Akkadico”, forse come richiamo a una stagione lontana di miti morti e sepolti, utili solo all’archeologia. Quel giorno è però un giorno diverso per lui. Ho saputo che suo fratello è morto. Nessun avviso in bacheca, ed è una stranezza, poiché il dovere di porgere le condoglianze per un defunto è un pilastro del galateo arabo/islamico. Evidentemente non ha voluto che lo si dicesse, ma io gli vado incontro lo stesso: “Professore, ho saputo della morte del suo caro fratello. Mi lasci dire che prego per lui, perché Dio, se mai c’è, lo accolga nella sua pace, nella sua luce”. Mi guarda sorpreso, cede appena appena alla commozione e vedo spuntare una lacrima nell’angolo di un occhio. È un attimo. Poi, come se si scrollasse qualcosa di dosso, sussurra: “Leisat al-hayat illa masrahan”, la vita non è che un teatro. Mi stringe la mano e prosegue per la sua strada, io per la mia. In quel corridoio senza finestre gli ho disegnato su un muro una finestra affacciata su prati e orizzonti a perdita d’occhio. Solo un disegno, nient’altro che questo. E’ il servizio del credente, o del diversamente credente, all’ateo.
Ignazio de Francesco