
da Acli.it, Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani.
Pubblichiamo in più puntate (per renderli più agevoli da leggere), gli orientamenti per il 26° congresso nazionale delle ACLI. Il titolo scelto è “ACLI 2020 Più eguali. Viviamo il presente, costruiamo il domani”. Con queste parole s’intende porre particolare attenzione all’uguaglianza e alla giustizia sociale, temi fondamentali nel nostro movimento, per declinare al presente e al futuro quelle politiche sociali che si rivolgono agli ultimi e ai penultimi, ad un ceto popolare sempre più schiacciato verso il basso a causa di anni di crisi e di scarsa attenzione da parte della politica.
2. Lo strappo tra pensiero e azione
Le sempre più accentuate e multiformi disuguaglianze rappresentano lo sfondo sul quale si collocano più specifiche linee di frattura, che rappresentano altrettante prospettive sulle quali intendiamo concentrare la nostra attenzione. In particolare, pensiamo che ci siano almeno quattro strappi da ricucire attraverso la riflessione e l’azione diretta. Si tratta di quattro grandi contraddizioni, quattro ambiti della vita sociale ed economica le cui logiche stridono con l’ecologia integrale, il paradigma che più di altri è in grado di fermare quella che nella Laudato si’ viene definita «la spirale di autodistruzione in cui stiamo sprofondando» (N. 163).
- Strappo #01: Economia Vs. Ambiente
- Strappo #02: Lavoro Vs. Sapere
- Strappo #03: Periferia Vs Comunità
- Strappo #04: Politica Vs. Democrazia
Strappo #03: Periferia Vs. Comunità
Ci sono sempre più persone «fuori posto», che non sappiamo dove mettere e per le quali decidiamo che il confinamento al di fuori della nostra sfera di vita sia la soluzione migliore. Non ammettiamo la possibilità che le nostre comunità si possano costruire anche assieme a loro.
Il trattamento riservato a migranti, rifugiati e sfollati è l’esempio più macroscopico di processi di esclusione e allontanamento che le società liberali attivano sempre più spesso. Dislocamenti fatti a tutela di una pòlis che applica una cittadinanza selettiva, di volta in volta, basata su criteri di reddito, affinità culturale e religiosa, presunta pericolosità sociale.
La mobilità umana è un fenomeno globale che non interessa solo la fortezza Europa: attualmente nel mondo ci sono più di 70 milioni di migranti, più di un terzo dei quali è un rifugiato, ossia è fuggito da una situazione nella quale era a rischio la propria incolumità personale. Di fronte a queste cifre la chiusura, il rifiuto, l’indifferenza sono reazioni puerili. Le migrazioni sono la grande questione del nostro tempo e l’Italia non sembra averlo capito.
La rotta mediterranea è solo una delle tante che insistono sul nostro Paese: si sono chiusi i porti e si sono lasciate morire centinaia di persone nel mediterraneo solo per propaganda; mentre lungo la rotta balcanica continuano ad arrivare persone delle quali nemmeno ci accorgiamo.
A questa umanità in movimento – che senza remore consideriamo in eccesso – si aggiungono persone che affermiamo di dover proteggere, ma con le quali non siamo in grado di (o non vogliamo) concordare un posto nella comunità: poveri, marginali, ex carcerati, rom, persone con disabilità fisiche o psichiatriche sono solo formalmente parte della comunità, perché anche per loro è più semplice trovare una collocazione al di fuori delle mura.
L’ostracismo nei confronti dei non conformi è la controparte di un’idea di cittadinanza omogenea e omologata. È questa la «cultura dello scarto» alla quale fa riferimento Papa Francesco. I migranti, i rifugiati, gli sfollati e le vittime della tratta sono l’emblema dell’esclusione: oltre al disagio che la loro condizione comporta, sono considerati la causa dei mali sociali. Il posto giusto per tutti costoro sono i margini della città, gli interstizi socio-economici, le fenditure tra uno spazio recintato e l’altro dove condurre una vita parallela, distante dai nostri occhi, lontana dai nostri cuori.
Periferie sono tutte quelle zone nelle quali sono innanzitutto le esistenze a essere periferiche, rimosse e bandite dal consesso sociale. Luoghi dove convivono «i reietti della città», ma anche tutti coloro che reclamano i propri diritti sociali.
Il sistema economico-finanziario adotta una vasta gamma di «procedure d’espulsione», alcune più manifeste, altre meno evidenti: il tratto comune è l’utilitarismo. Chi non è produttivo diventa un peso del quale nessuno vuole farsi carico. Anziani, malati, disoccupati, persone sole senza una rete di supporto corrono il rischio di essere esclusi. Si tratta di una china pericolosa, lungo la quale ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa un peso.
Forse non ci siamo accorti che è lo schema centro-periferia a produrre disuguaglianze è tempo di pensare città policentriche, in cui governare diventa sinonimo di animare, motivare, indirizzare, più che dirigere. Per porre un argine a questa pericolosa deriva c’è bisogno della mobilitazione delle comunità, di una reazione della società che parta «dal basso», rinneghi l’utilitarismo cieco e ribadisca con forza i valori della solidarietà. Una comunità che però non sia esclusiva, rinchiusa in se stessa a guardia delle mura (quante violenze e ingiustizie sono perpetrate in nome della comunità?).
Animare le comunità un tempo era più semplice (bastava che don Camillo e Peppone fossero d’accordo) oggi è molto più complesso. Perché le parti in causa non sono nettamente definite e le leadership interne non sono forti. Serve lavorare in tanti: pubblico, privato, Terzo settore, chiesa.
Nelle nostre comunità stiamo già dando dei segnali: i nostri animatori, i soci, i volontari animano una fitta rete di spazi sociali (circoli, segretariati, semplici luoghi di aggregazione) che prestano ascolto e tentano di rispondere alle domande sociali degli esclusi.