
dal profilo facebook di fratel Ignazio de Francesco, monaco della Piccola famiglia dell’Annunziata.
L’ho lasciata bambina e la ritrovo donna, in quel momento specialissimo unico della vita che è l’estate dopo l’esame di Maturità, che in Palestina si chiama Tawjih. È passata al tawjih quasi col massimo dei voti, tra le prime del suo liceo. Ora scoppia di idee e di progetti, una cosa incredibile se la si pensa cresciuta nel crepuscolo del suo popolo, che passa senza interruzione da una sconfitta all’altra. Mi piace ascoltarla, con quella cadenza palestinese inconfondibile rispetto all’arabo di Damasco, Beirut, Amman, Baghdad e il Cairo. Vuole fare la giornalista, anzi la giornalista televisiva. Ha trovato la facoltà giusta, all’università di Birzeit, e va a iscriversi.
Vedendola così baldanzosa, le chiedo che discorso farebbe di fronte al Consiglio Legislativo, il parlamento palestinese. Riflette un attimo: riforma radicale del sistema educativo, perché noi della nuova generazione abbiamo bisogno di cultura, basta solo nozioni a memoria, dobbiamo passare da taallama a tathaqqafa, dall’imbottigliamento al ragionamento.
E che cosa chiederesti al Patriarca, al Papa? Un aiuto per il lavoro, per non andare via. Perché nei suoi progetti c’è un master all’estero, in Europa magari, ma poi bisogna ritornare, assolutamente, il mio posto è qui.
E il posto della religione? L’essere cristiana lo sente come una “miza kabira”, una grande prerogativa. Però le sue compagne sono musulmane, hanno la loro di fede, e lei non vede alcuna difficoltà nel taayush, il “con-vivere” nel senso forte del termine.
Ripenso all’angoscia patita per lei in quello scorcio di primavera del 2002. Il coprifuoco era pressoché generale, e si temeva che sua madre non avrebbe raggiunto in tempo l’ospedale dal villaggio, chissà magari avrebbe partorito per strada. Pregammo intensamente Dio (se mai c’è) per questo motivo e la strada si aprì (forse per caso).
Mia madre, che aveva preso la cosa a cuore dall’altra parte del mare, la incontrò appena arrivata, proprio nel momento in cui sua madre la portava in chiesa, passati i quaranta giorni della purificazione, secondo una tradizione che sa di Vangelo. Le due madri, la giovane e l’anziana, si commossero per la coincidenza (forse per caso) e l’anziana fu scelta all’istante come madrina di battesimo della piccina, che da quel giorno ha un pezzo di famiglia in Italia.
Da allora, giorno dopo giorno, è fiorita in età e grazia, anche se tutto intorno a lei sembra rotolare verso il peggio, giorno dopo giorno. Le chiedo che cosa direbbe se potesse parlare davanti alla Knesset, il parlamento israeliano. Riflette un attimo: Pace, direi la parola pace, direi che non odiamo gli ebrei, perché sono persone come noi, ma non prendetevi la terra.
Il paradosso balza all’occhio: una ragazza così fiorisce, malgrado il macigno che grava su di lei e sulla sua generazione, ebrei e palestinesi. Sulle spalle di questi ragazzi da sogno, palestinesi ed ebrei, c’è un carico di storia insostenibile, ferite antiche e recenti che sembrano insanabili. È vero che la storia è necessaria per definire le identità, ma non può trasformarsi in prigione a vita delle nuove vite, un’ipotetica impossibile da saldare. Questa è l’evidenza che ti assale ad ogni passaggio ai posti blocco, quando li vedi tutti in prigione, di qua e di là dalle grigie inferiate e dai vetri blindati: i ragazzi palestinesi che passano i controlli, e i ragazzi israeliani che effettuano i controlli.
La storia è necessaria per dire chi siamo, ma non può trasformarsi in un incubo individuale e collettivo. Bisogna provare a riconoscere che le determinazioni della storia, con le sue ricchezze e i suoi limiti, sono come il colore della pelle rispetto alla sostanza della persona. Ma per fare questa rivoluzione ci vuole capacità di sogno, del tipo mostrato da Martin Luther King nel suo più celebre discorso: “Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!”.
Ignazio De Francesco