
da Vinonuovo.it, «vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi» (Lc 6,36).
Tutti, forse, speravamo fosse una questione morale chiusa. Ma dal 25 febbraio di quest’anno la domanda è rimbalzata improvvisa: esiste una guerra giusta? In realtà una eco era già presente al tempo della guerra in Siria, ma l’Ucraina è molto più vicina della Siria, perciò oggi la questione torna alla ribalta. Soprattutto in ambito cattolico, l’acuta percezione del dramma Ucraino e l’inevitabilità delle difesa armata contro l’invasore russo ha portato molti teologi, filosofi e persone di fede a reinterrogarsi, lacerando spesso coscienze che hanno da sempre tentato di tenere insieme davvero fede e storia.
In questo contesto alcune voci che si sono levate in questo dibattitto, come oggi purtroppo accade spesso, hanno mostrato scarsa conoscenza dei dati del magistero e della storia della fede. Perciò, di nuovo, si rende necessaria una chiarificazione di tali dati e la riproposizione delle domande radicali che stanno al fondo di questo tema. Infatti, entrambi gli estremi del “non esiste che la guerra sia di per sé sempre sbagliata” e del “non esiste mai una guerra giusta” non sono fedeli alla intera Tradizione della Chiesa.
Fino a circa metà del secondo secolo non si trovano testi rilevanti su cosa pensavano i cristiani della guerra e nemmeno sulla presenza di cristiani nell’esercito. Questo permette di pensare sia che i cristiani facevano occasionalmente il servizio militare, senza essere rimproverati, ma anche che i cristiani, tendenzialmente, si rifiutavano di prestare il servizio militare (A. Harnack).
L’atmosfera degli scritti cristiani di quell’epoca inclina, però, verso una presa di distanza teorica dalla guerra, pur riconoscendo che i cristiani possono essere soldati. Per due motivi: intanto il centro del messaggio evangelico dell’amore verso tutti (compreso i nemici, Mt 5,44), ad immagine dell’amore unilaterale e smisurato che Dio ha verso tutti (buoni e cattivi Mt 5,45); in secondo luogo, l’attesa imminente della seconda venuta di Cristo, che tende a svuotare di senso un investimento energico e vitale così alto, come quello richiesto da una guerra, nelle attività umane: “pensate alle cose di lassù” (Col 3,2).
Dal 170 circa fino alla metà del quarto secolo, ci sono invece testi sulla necessità del cristiano di rinunciare alla guerra, in particolare Clemente Alessandrino, Cipriano, Tertulliano, Origene e Basilio; si magnifica S. Massimiliano di Tebessa, militare che si rifiuta di combattere perché cristiano, messo a morte sotto Diocleziano e si riammettono alla comunione i militari cristiani, rientrati dalla guerra, solo dopo un periodo di penitenza (W.E.H. Lecky).
Ma nello stesso identico periodo troviamo anche indicazioni su come il militare cristiano possa comunque mirare alla santità, restando militare e obbedendo ai suoi superiori. Tra essi alcuni vengono santificati come martiri, non perché si siano rifiutati di combattere, ma perché non hanno fatto sacrifici agli dei pagani. Poi, nel 314, il Concilio di Arles, stabilisce che: “quelli che gettano le armi in tempo di pace devono essere esclusi dalla comunione”. A dire come le posizioni ecclesiali fossero molto eterogenee.
È solo con i padri del quinto secolo (Agostino e Girolamo soprattutto) che la domanda sulla esistenza di una guerra giusta viene posta con chiarezza e risolta, poi, affermativamente. Agostino la giustifica partendo dalla consapevolezza dell’imperfezione dell’ordine naturale umano, segnato dal peccato, che certifica già la presenza della guerra. Il suo tentativo è, quindi, quello di fissare dei criteri che possano “limitare” la presenza della guerra nel mondo, e per lui sono due: legittima autorità e giusta causa, fissando così le basi della teoria classica cristiana della guerra giusta. Con la teologia morale del XVI e XVII sec., a questi due criteri si aggiungerà quello del “debitus modus”, il modo corretto di combattere.
Ora, la storia si è incaricata di mostrarci come questi tre criteri siano stati applicati nel modi più vari ed inimmaginabili. La legittima autorità è stata invocata a giustificazione delle repressioni di ribellioni fatte per liberarsi da un giogo coloniale (centro e sud America e poi Africa), o per legittimare gli interessi di soggetti privati (Compagnia delle Indie) che nulla avevano di legittima autorità. Lungo i secoli, come “giusta causa” furono addotti praticamente tutti i motivi immaginabili: la promozione della fede cattolica (crociate), l’apporto di un generico beneficio all’umanità (sterminio di razze), il libero commercio (guerre di espansione territoriale), e così via. Nessuna autorità ecclesiastica cattolica, per esempio, obiettò al preteso diritto dell’Italia ad avere più terre da coltivare (il famoso “posto al sole”). Poi il principio del “debitus modus”, ad esempio, permise al dittatore Franco il bombardamento a tappeto di Guernica, affermando che comunque esso era proporzionato al giusto fine di demoralizzare la popolazione ribelle e stabilire l’ordine nel Paese.
Forse anche per queste evidenze il Vaticano II non usa l’espressione “guerra giusta” nei suoi documenti ufficiali, a cui preferisce “legittima difesa in campo internazionale”. Cosa ripresa dal Catechismo attuale (legittima difesa con la forza militare), che però ritorna a citare anche l’espressione “guerra giusta”, ma che la confina definitivamente e finalmente entro una guerra solo difensiva.
E, nel tentativo di rendere più concreti questi tre criteri, specifica che una guerra è giusta se: il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni è durevole, grave e certo; se tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; se ci siano fondate condizioni di successo. (CCC 2309)
Appare evidente come questi sforzi per confinare concettualmente la guerra non siano stati molto utili a limitarne di fatto la presenza e i danni. Ma soprattutto, come anche i criteri più concreti formulati dal CCC siano fortemente interpretabili. Nel caso della guerra attuale: ci può essere dubbio sul fatto che il danno più durevole è la morte delle persone? È più grave perdere la sovranità (parziale o totale) di uno stato o la morte dei suoi cittadini? Sui mezzi alternativi utilizzati: se continuiamo a comprare gas dalla Russia abbiamo davvero fatto tutto il possibile? Abbiamo scelto di rinunciare ai condizionatori estivi, come esempio di minore spesa energetica possibile? Sulle condizioni di successo: molti davano l’ucraina spacciata in pochi giorni, mentre l’imperizia militare e la drammatica mancanza di organizzazione russa consente agli ucraini di sperare ancora in una vittoria. Si può davvero valutare in anticipo?
La questione allora diventa: qual è la scala di valori che utilizziamo per applicare questi criteri? Si tratta di una scala davvero evangelica? Non ci si può sottrarre allora alla riflessione teologica (proposta in un secondo post) che, a mio parere, richiede una riconsiderazione globale dell’applicazione dei criteri utilizzati per definire la guerra giusta.
Gilberto Borghi