Cristiani senza Cristo o senza mondo?

da Vinonuovo.it, «vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi» (Lc 6,36).

Il 4 maggio scorso, Matteo Matzuzzi, vaticanista del Foglio, firmava un lungo articolo sui “Cristiani senza Cristo”. L’ipotesi di fondo dell’articolo era che a partire da un certo punto della storia la Chiesa avesse perso Cristo – la parte divina di Gesù – e la crisi di fede di oggi ne fosse la conseguenza. Di fatto questo modo di pensare ipotizza che prima di un certo punto storico la Chiesa fosse fedele alla divinità di Cristo e il popolo europeo – almeno nella sua gran parte – fosse convintamente cristiano (assai diverso dall’essere naturaliter cristiano), mentre dopo sia la Chiesa che il popolo cristiano abbiano smarrito Cristo e la sua divinità. Per dimostrare tale infedeltà si richiamano le chiese vuote, la perdita di influenza etica nella società e la destrutturazione di una salda dottrina, il calo delle vocazioni sacerdotali e dell’organizzazione della vita comunitaria di fede. Insomma, il diluvio universale del laicismo.

Ora, qualche osservazione è inevitabile e in primo luogo ci chiediamo: in quale punto storico sarebbe avvenuto questo ‘smarrimento’? È abbastanza evidente la difficoltà dell’articolo di situare con chiarezza il momento dell’inizio della crisi. Prima si indicano gli anni ‘60, con il culmine nel ’68, ma – fortunatamente – scagionando il Concilio Vaticano II. Poi – usando una citazione di Brunelli – si afferma che in realtà già quella degli anni ‘50 era una fede formale senza Cristo, nonostante le adunate oceaniche pacelliane e la ricchezza della vita ecclesiale. Quindi – citando il cardinale Eijk – si parla degli anni ‘30 – addirittura quelli ‘20 – finché, seguendo una lettura antimodernista (assai discutibile) di Peguy, si addita la modernità in generale come periodo sereno e prospero pur «senza Gesù». Il che farebbe pensare ad una Chiesa non in grado di evangelizzare secondo Cristo già dalla frattura di fine ‘700, se non addrittura dalla fine del ‘400 (ma qui bisognerebbe conoscere il dibattito scientifico sulla modernità: gli storici della Longue durée vedono una frattura nel Seicento, considerando il Medioevo fino a quel secolo… e quindi il Concilio di Trento e soprattutto il lungo postconcilio sarebbero sulla linea di frattura?). Che dire poi, aggiungiamo noi, del XI e XII secolo e della fede tenuta in piedi e rivitalizzata soprattutto dalla santità di Francesco e Domenico? E la società del VIII e IX secolo, in cui la fede si traduceva quasi esclusivamente nella forma monacale, era forse pervenuta alla forma storica definitiva di Cristo? Si potrebbe continuare fino a Cristo stesso, come suggeriva Kierkegaard, ricordando la non sostanziale differenza tra i primi discepoli di Cristo e, ogni volta, gli ultimi discepoli, perché il problema non è tanto quello di rendere Cristo nostro contemporaneo, bensì noi suoi contemporanei.

In tal senso, chi ha un poco di confidenza con l’immaginario culturale e con la storia della Chiesa sa bene che non è mai esistita un’epoca più fedele di un’altra al Vangelo, ma che si è sempre data una forma o più forme di cristianesimo, in cammino nel tempo (il popolo analfabeta aveva una fede assai diversa dai monaci o dall’aristocrazia, ad esempio). Quanto poi il ‘messaggio cristiano’ fosse intimamente legato al potere politico non è secondario: cuius regio, eius religio – dove stava la libera e convinta adesione a Cristo, se essere apostati significava mettere a rischio la propria vita? La debolezza della teologia della storia cristiana di Matzuzzi, allora, sta proprio in quella parte del suo ragionamento in cui egli, pur dicendosi contrario ad ogni rimpianto funebre della struttura culturale borghese della fede, lascia trapelare l’ipotesi che ci sia stata in qualche modo un’età dell’oro della fede che è andata persa, e che ciò comporti un “regresso” storico della fede stessa, oggi ‘corrotta’ rispetto a 50, 200, 500 anni fa. Come non accorgersi che in questo modo si applicano alla fede, nel suo rapporto con la storia, proprio i tre criteri che nell’articolo stesso sono posti alla base del (presunto) disastro della modernità: efficienza, perfomance, progresso? La crisi organizzativa delle comunità è una mancanza di efficienza; la perdita di influenza etica nella società è una mancanza di performance; le chiese vuote sono il frutto di una mancanza, o meglio, di un eccesso di progresso. In effetti, la descrizione delle dinamiche che secondo Matzuzzi hanno portato alla crisi di fede attuale rimanda all’idea che la crisi odierna sia originata tutta da una deviazione interna alla Chiesa, rispetto a ciò che essa avrebbe dovuto seguire – deviazione che continuerebbe oggi nel tentativo «ammiccante» al mondo attuale (come la citazione di Biffi pare confermare).

Sembra, però, un po’ presuntuoso pensare che tutto ciò che avviene alla Chiesa e alla fede sia solo questione di Chiesa e di fede, come se il mondo esistesse solo come catalizzatore esterno di processi perversi interni. Come se la Chiesa non vivesse nel mondo e non fosse toccata da ciò che in esso accade, ma dovesse semplicemente conquistarlo: come se, fatto davvero ‘eretico’ (per usare una categoria dell’articolo), il mondo e la storia fossero abbandonati dallo Spirito. Alla base di questo modo di pensare la Chiesa in rapporto al mondo sembra esserci l’idea delle “magnifiche sorti e progressive” applicata al cristianesimo. Come se la via della Chiesa nel mondo debba essere una marcia trionfale di successo in successo, di numeri sempre più alti, che permetterà all’ultimo Papa di consegnare direttamente a Cristo una Chiesa che avrà inglobato il mondo. Quando invece Il catechismo attuale lascia intendere che la fine terrena della Chiesa assomiglierà a quella di Gesù (n.766 e 769).

Il vero problema, allora, sembra essere non che si è perso Cristo (e la sua divinità), ma che si è perso il rapporto col mondo per come lo ha insegnato il Concilio Vaticano II (GS 44). Da quando Cristo si è incarnato, è morto ed è risorto, non è più possibile percepire, ascoltare e vivere Dio senza al tempo stesso percepire, ascoltare e vivere il mondo. Non certo nel senso che Dio sia il mondo (e viceversa), ma nel senso che Dio ha deciso di vivere e rivelarsi nel mondo, perciò se si perde uno si perde anche l’altro; se non si trattiene ciò che c’è di buono nel mondo si perdono aspetti della bontà, del bene che Dio – in esso – è (1Ts 5,19-21).

Qui si manifesta anche il nodo dell’umanità (a partire da quella di Gesù): possiamo ancora pensare nostalgicamente al tempo andato, quasi volendo riportare indietro l’orologio, ignorando l’umanità di oggi, non accogliendo l’assunto che ciò che è autenticamente evangelico è anche autenticamente umano? Davvero pensiamo di ‘riproporre’ Cristo (e la sua divinità) senza accogliere ciò che gli uomini e le donne oggi vivono – come fece a suo tempo l’uomo Gesù, chiedendo invece una loro amputazione in cambio di un pacchetto di norme e regole entro cui definirsi ‘fedeli cristiani’?

Sarebbe invece da domandarsi se uno dei motivi della ‘crisi di fede’ che vive l’Occidente non sia proprio da cercare nel progressivo venir meno delle risposte semplici, a tratti semplicistiche, che certo cristianesimo tradizionale offriva a questioni complesse, insieme alla sua incapacità, al contrario, di scendere nel profondo, di mettersi in discussione. Quando il sapere scientifico e umanistico ha iniziato a offrire risposte che, in ultima analisi, non toccavano la fede ma che erano state considerate ‘essenziali risposte di fede’, il ‘castello di carta’ è caduto: non è forse avvenuto ciò in tema di democrazia, giustizia sociale e potere temporale della Chiesa nell’Ottocento? O di applicazione dei metodi scientifici di ricerca nel primo Novecento e, oggi, nella questione antropologica?

In tutto ciò, troppo spesso la Chiesa ha continuato a dare risposte – con un certo linguaggio –  a domande che – con quel linguaggio – nessuno più poneva (EG 41), mentre ha saputo sempre meno dare risposte alle domande vere che gli esseri umani, ‘dentro e fuori il recinto’, portano con sé – e che Cristo può incontrare nella sua Parola, nei sacramenti, nella vita comunitaria, ma anche nella vita del mondo (EG 155).

È curioso che lo stesso Matzuzzi colga questo nodo nella recente analisi di Massimo Borghesi, per il quale la Chiesa non è stata «all’altezza» del (pasoliniano?) cambiamento culturale dovuto all’avvento del consumismo individualista di stampo statunitense, offrendo in modo conservativo la  consueta «morale moralista», invece di una «proposta di vita» capace di toccare il cuore del quotidiano – nella convinzione che «quando si riesce ad esprimere adeguatamente e con bellezza il contenuto essenziale del Vangelo, sicuramente quel messaggio risponderà alle domande più profonde dei cuori» (EG 265).

Questo contenuto essenziale, però, non sarà mai la forma storica di esso, magari quella di un passato che piace a noi. In tal senso, forse, la risposta che verrà dal Sinodo tedesco potrebbe anche risultare insufficiente (come afferma Matzuzzi), ma – lo abbiamo ripetuto più volte – non si può pensare che la conversione istituzionale della Chiesa sia sempre successiva e accessoria a quella personale nella Chiesa. Inoltre, sarebbe altrettanto insufficiente una risposta legata, ad esempio, ai movimenti tanto apprezzati da Matzuzzi, ma anch’essi oggi poco floridi. Si tratta, invece, di piegare il capo sul mondo, rimboccarsi le maniche, anzi «il grembiule» (don Tonino Bello), e provare a re-immaginare e ridire insieme i temi scottanti dell’odierna antropologia e teologia, per verificare quale Dio – e quale umanità – si manifesti in essi.

Sergio Ventura, Gilberto Borghi, Sergio Di Benedetto

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