
Per la vita del mondo. Verso un ethos sociale della Chiesa ortodossa: è il titolo di un documento di rilevante importanza. È il primo e organico approccio a quella che i cattolici chiamano «dottrina sociale». Il suo peso è indicato dalla sua origine (una richiesta del concilio di Creta del 2016), dal livello della commissione che l’ha preparato (13 teologi), dal materiale e riletture forniti (25 eparchie del Trono ecumenico distribuite nel mondo), dalle 12 lingue in cui è stato tradotto, dall’approvazione, nel gennaio 2020 del santo e sacro sinodo di Costantinopoli.
La pubblicazione è avvenuta negli USA il 27 marzo 2020. I curatori sono David Bentley Hart (del Notre Dame Institute for advanced study) e John Chryssavgis (del patriarcato ecumenico, presidente della commissione). Disteso in 82 numeri e diviso in otto parti, occupa una settantina di pagine.
I titoli delle parti sono orientativi: oltre la prefazione, l’introduzione (è tempo di servire il Signore); la Chiesa nella sfera pubblica (affidiamo tutta la nostra vita a Cristo Dio); il corso della vita umana (santifica le anime e i corpi nostri, e concedici di servirti in santità tutti i giorni della nostra vita); povertà, ricchezza e giustizia civile (ricordati Signore, di coloro che si ricordano dei poveri); guerra, pace e violenza (per la pace del mondo intero…); relazioni ecumeniche e relazioni con altre fedi (preghiamo per l’unità di tutti); ortodossia e diritti umani (ci hai creati a tua immagine e somiglianza); scienza, tecnologia, mondo naturale (il tuo dal tuo a te offriamo); conclusione (esultiamo, possedendo quest’àncora di speranza).
Su Settimananews.it il commento di Lorenzo Prezzi.
PER LA VITA DEL MONDO
Verso un ethos sociale della Chiesa Ortodossa
IV. Povertà, ricchezza e giustizia civile
Ricordati, Signore, di coloro che si ricordano dei poveri
§32. Quando il Figlio eterno divenne uomo, privandosi della sua gloria divina e scambiando la “forma di Dio” con la “forma di un servo” (Filippesi 2,6–7), scelse in tal modo di identificarsi con le persone più marginali, politicamente impotenti e socialmente svantaggiate del suo tempo. Nato tra un popolo sottomesso, senza alcun diritto legale davanti ai propri colonizzatori imperiali, cresciuto in una famiglia appartenente alla umile classe artigiana, Cristo iniziò la sua missione nell’entroterra della Galilea e dedicò il suo ministero principalmente ai più indigenti e senza speranza del suo popolo. In questo ambito, ha assunto la missione dei profeti d’Israele e, in effetti, la causa etica più profonda di tutta la Legge e dei Profeti. Nell’inaugurare il proprio ministero pubblico ha fatto suo, l’annuncio del profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore.” (Luca 4,18–19). Questo particolare impegno nei confronti dei diseredati e dei disperati, lungi dall’essere solo un elemento secondario della sua missione nei confronti dei figli d’Israele, ne ha definito la vera essenza. A coloro che hanno approfittato dello sfruttamento dei deboli (Luca 20,46–47) o che hanno ignorato la difficile condizione dei poveri (Luca 6,24–25; 16,25), i suoi avvertimenti non avrebbero potuto essere più terribili e le sue condanne più intransigenti. Le sue insistenze, che si poggiano sulla buona volontà e sui beni privati dei propri discepoli inoltre, erano incessanti per quanto riguardava i bisogni dei poveri. Egli ordinò loro di dare senza riserve a tutti coloro che avrebbero potuto chiedere (Matteo 5,42), con una generosità talmente discreta, che la mano sinistra non deve sapere ciò che fa la destra (Matteo 6,3) e proibì loro di riservare una qualsiasi delle proprie ricchezze per sé stessi, in quanto tesori terreni (Matteo 6,19–20). Non solo istruì il ricco giovane sovrano a vendere tutti i suoi beni e a dare il ricavato ai poveri (Matteo 19,16–30; Marco 10,17–31; Luca 18,18 –30); chiese lo stesso a tutti coloro che desideravano seguirlo (Luca 12:33) e non considerava degno di essere suo discepolo, chi non avesse dato tutto ai bisognosi (Luca 14:33). Infatti, egli non lasciò dubbi su ciò che era richiesto a coloro che speravano di entrare nel Regno di Dio: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.” (Matteo 25, 34–36). Seguendo la chiamata del Padre, inoltre, sopportò tutte quelle situazioni estreme di senzatetto e di rifiutato: “Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Matteo 8,20; Luca 9,58); “Si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio” (Luca 4,29). E pose fine al suo ministero terreno, condannato da una potenza occupante straniera, davanti ai cui tribunali non possedeva alcun diritto legale, e morì come il criminale più umile, giustiziato dagli strumenti più agonizzanti e umilianti di pena capitale allora noti.
§33. Detto questo, la Chiesa non può seguire veramente Cristo o renderlo presente al mondo, se non riesce a porre al centro della sua vita morale, religiosa e spirituale la assoluta preoccupazione per i poveri e gli svantaggiati. La ricerca della giustizia sociale e della clemenza – aiuto ai poveri e riparo per i senzatetto, protezione per i deboli, accoglienza per gli sfollati e assistenza ai disabili – non è semplicemente un ethos che la Chiesa raccomanda per avere la coscienza tranquilla, ma è un necessario mezzo di salvezza, il percorso indispensabile per l’unione con Dio in Cristo. Non riuscire in queste responsabilità porta alla condanna davanti al giudizio di Dio (Matteo 25,41-45). Per questo, le prime comunità cristiane dell’età apostolica adottarono un modo di vivere radicalmente diverso da quello del più ampio ambiente culturale, possedendo tutto in comune e rinunciando a tutta la ricchezza privata a favore della comunità nel suo complesso, in modo che le esigenze di ogni membro del corpo di Cristo potessero essere soddisfatte (Atti 2,44–45; 4,32–37). A quel tempo, la Chiesa non poteva permettersi di rimodellare la società civile, e data la realtà assolutamente inattaccabile dell’ordine imperiale, la Chiesa non avrebbe potuto produrre qualcosa di simile a un’ideologia politica astratta, per correggere o migliorare le ingiustizie dell’epoca. Tuttavia, i Cristiani erano in grado di prendersi cura dei poveri che si trovavano tra di loro e soprattutto delle vedove e degli orfani (le classi più indifese del mondo antico), creando una politica d’amore, che non abbandonava alcuno al proprio destino. Inoltre, questa comprensione della vita in Cristo, come solidarietà radicale, è continuata, non perfettamente purtroppo, ma con un effetto reale, nell’epoca in cui la Chiesa si era politicamente affrancata. Dopo la conversione dell’Imperatore Costantino, nessun cambiamento nella politica imperiale fu più significativo, come espressione concreta delle conseguenze sociali del Vangelo, che il grande impegno della Chiesa per i poveri, grazie anche al grande sostegno materiale da parte dello Stato.
§34. Tutti i più grandi Padri della Chiesa del IV e V secolo, hanno inoltre testimoniato eloquentemente la profonda intuizione cristiana, secondo cui la vita in Cristo deve comportare un’ostilità combattiva alle condizioni che creano povertà, nonché un impegno eroico per la filantropia e la carità. San Basilio il Grande si oppose alle disuguaglianze della ricchezza nella società dei suoi tempi, e criticò aspramente i ricchi che immaginavano di avere il diritto di nascondere agli altri i propri beni, richiamandosi solo a motivi legali; tutte le benedizioni vengono da Dio, insisteva, e tutti i beni della creazione sono proprietà comuni dell’umanità. [26] Chiunque sfrutti i poveri per il proprio profitto, accumula la dannazione per sé stesso. [27] Chi non riesce a condividere la propria ricchezza con gli affamati, è colpevole non solo di una inosservanza a una responsabilità generale, ma di omicidio.[28] San Giovanni Crisostomo ha detto lo stesso di tutti coloro che guadagnano la loro ricchezza, attraverso pratiche ingiuste che sottopongono i poveri a una sempre più grande povertà. [29] Secondo lo stesso Padre, l’uomo ricco che non condividerà la sua ricchezza con chi è nel bisogno, è un ladro, [30] perché l’abbondanza di ogni creazione viene da Dio e costituisce un diritto di nascita comune a tutte le persone; [31] tutto ciò che l’uomo ricco possiede, gli è stato affidato per il bene comune, [32] e tutto ciò che egli ha, appartiene a tutti gli altri. [33] San Ambrogio di Milano aveva un punto di vista simile.[34] Questa era l’epoca in cui i teologi Cristiani ebbero per la prima volta l’opportunità – e l’obbligo – di considerare il come trasferire la radicale solidarietà sociale e la carità comune della Chiesa apostolica, nelle pratiche civiche di una cultura presumibilmente cristiana. Nessuno di loro, a quanto pare, avrebbe potuto immaginare che la vita etica cristiana potesse essere divisa in sfere separate del privato e del pubblico, o che i requisiti evangelici delle coscienze dei fedeli non si sarebbero estese a tutta la società cristiana. Tutti erano profondamente consapevoli del fatto, che una cultura cristiana doveva affrontare i mali strutturali che condannano così tanti alla penuria, concedendo a pochissimi un’immensa ricchezza. Come affermava San Basilio, gli esseri umani sono creature sociali e politiche per natura, che devono condividere i propri beni tra loro per porre fine alla povertà; e così, ha insistito, è una politica pubblica necessaria in una società cristiana, che sia istituito un tesoro da cui possano essere soddisfatti i bisogni fondamentali di tutti e che i doni abbondanti della creazione, debbano essere giustamente ridistribuiti.[35] Tali misure non dovrebbero neppure essere considerate straordinarie o troppo zelanti per i Cristiani. Secondo San Ambrogio, da un punto di vista Cristiano, tale ridistribuzione non è altro che la giusta restituzione che i ricchi devono ai poveri, per i loro sproporzionati averi della comune ricchezza , appartenenti alla intera umanità.[36] Una grande sfida che la Chiesa Ortodossa può incontrare nel mondo moderno, è quella di trovare il modo di obbedire oggi a questi insegnamenti e tradizioni scritturistici e patristici, riguardo al bene comune ed è una sfida che richiede discernimento e pazienza. Richiede anche, tuttavia, una fedeltà senza compromessi alla persona di Cristo e agli esempi degli apostoli e dei santi. Ciò significa, che la Chiesa è chiamata a condannare le attuali condizioni sociali, quando la condanna è giustificata, a elogiare laddove tali condizioni sono meritorie e a incoraggiare il cambiamento in meglio, ovunque l’incoraggiamento possa dare frutti. Soprattutto, la Chiesa non può essere meno preoccupata per la situazione dei poveri e degli indifesi, di quanto non fosse Cristo stesso e deve essere pronta a parlare per conto loro, quando le voci di questi non vengono ascoltate.
§35. Tra i mali più comuni di tutte le società umane, – anche se spesso portati a un livello senza precedenti di raffinatezza e precisione nei paesi sviluppati moderni, – sono le gravi disuguaglianze di ricchezza, spesso prodotte o favorite da politiche regressive di tassazione e da una insufficiente regolamentazione di salari equi, che favoriscono gli interessi di coloro che sono a tal punto ricchi, da influenzare la legislazione e garantire la loro ricchezza davanti alle esigenze del bene comune. Se è vero che una tassazione imprudente delle istituzioni private, che creano posti di lavoro, può in alcune circostanze deprimere l’occupazione e comportare maggiori oneri per i poveri, questo è un pericolo che raramente, e forse anche mai, avviene nei paesi industrializzati. La realtà molto più comune è quella in cui, i membri più ricchi della classe imprenditoriale sono protetti contro un onere fiscale proporzionato ai benefici di cui godono dal loro posto nella società, mentre è permesso alle diverse aziende di indulgere in pratiche, che creano mercati per la manodopera a basso costo, a scapito del benessere dei lavoratori. I risultati di questi atti sono un onere maggiore, che grava sui guadagni della classe media lavoratrice e, abbastanza spesso, una inadeguata offerta pubblica per i poveri. Contro tutte queste pratiche, sicuramente, la Chiesa Ortodossa deve insistere sull’equità e sulla compassione, come principi fondamentali della politica fiscale e delle linee guida per salari equi, nonché sulla responsabilità morale dei ricchi di contribuire il più possibile al benessere della società nel suo complesso, e sulla concomitante responsabilità dei governi di pretendere, che le classi più ricche agiscano senza protezioni legali ingiuste o vie di evasione. Le affermazioni dei Padri della Chiesa, secondo cui i beni della creazione costituiscono un diritto di nascita di tutti coloro che sono stati creati a immagine di Dio e che quindi i più ricchi hanno l’obbligo di condividere le loro sostanze con i poveri, possono andare in contrasto con alcune delle più care concezioni del mondo moderno sulla proprietà privata. Queste affermazioni sono assolutamente fondamentali per una visione cristiana di questo mondo, che costituisce dono innato di Dio, ed esprimono una responsabilità, che agli occhi della Chiesa è vincolante per qualsiasi società giusta.
§36. Un’altra conseguenza delle leggi volte principalmente a garantire la ricchezza dei ricchi è naturalmente, la frequente riduzione del lavoro a una merce e dei lavoratori a una condizione che non è ingiusto descrivere come “schiavitù salariale”. Questo è particolarmente vero nei paesi industrializzati, le cui leggi rendono eccessivamente facile, per i grandi datori di lavoro, aumentare i loro margini di profitto a scapito dei propri dipendenti, trattenendo i benefici, non riuscendo a fornire un salario di sussistenza, gestendo le ore dei lavoratori in un modo che nega loro i veri privilegi della piena occupazione e soprattutto, trasformando la mano d’opera a basso costo, in una sorta di risorsa naturale da sfruttare, in particolare nei mercati del lavoro, in cui non esistono protezioni di base per i lavoratori. Spesso, pratiche commerciali di questo tipo trovano rifugio negli accordi di libero scambio, anche se il collegamento di tali pratiche con le economie più forti del libero scambio internazionale sono, nella migliore delle ipotesi, tenui. Le aziende internazionali sono spesso in grado di ridurre le proprie spese e aumentare i loro profitti, trasferendo le loro operazioni in parti del mondo, dove il lavoro è a basso costo, proprio perché i lavoratori sono disperati e i governi locali sono più desiderosi di attirare investimenti stranieri, che di istituire politiche umane del lavoro o anche di garantire le protezioni più elementari per i lavoratori. Tutto questo ha il duplice effetto di abbassare i salari nei paesi sviluppati e di rafforzare la povertà nei paesi in via di sviluppo. Inoltre, ai margini di tutti i mercati del lavoro, esistono classi di persone, che sono escluse dalle tutele della legge e quindi soggette a sfruttamento, rispetto al quale non possono fare alcun ricorso giuridico efficace: i lavoratori privi di documenti, per esempio, che devono accettare salari molto al di sotto del minimo legale, in cambio di un lavoro più oneroso, o donne che provengono dai paesi in via di sviluppo, sfollate e addirittura ridotte in schiavitù, costrette al traffico sessuale, insieme a tutti gli abusi, i pericoli e i degradi, che tale vita comporta. Inoltre, nonostante alcune affermazioni “populiste” contrarie, questi mali sono spesso promossi solo dalle rigide leggi sull’immigrazione e dai confini invalicabili. Datori di lavoro senza scrupoli hanno molto spesso l’interesse, che i diversi mercati del lavoro nazionali siano il più separati possibile l’uno dall’altro, e questo ha il duplice effetto di creare una forza lavoro “ombra” di lavoratori, privi di documenti, da sfruttare entro i confini nazionali e di preservare l’esistenza di mercati del lavoro depressi, da sfruttare al di là di tali confini. Un libero flusso internazionale di lavoro, e con esso la capacità del lavoro di organizzarsi su scala globale e quindi di richiedere standards base di occupazione in tutti i mercati del lavoro, renderebbe tale sfruttamento quasi impossibile. Da qui ne deriva la collusione empia tra molti interessi aziendali transnazionali e molti Stati, per rendere impossibile il libero flusso del lavoro attraverso le frontiere, spesso con i mezzi più draconiani.
§37. Contro tutte queste pratiche, la Chiesa Ortodossa deve insistere sull’alta dignità del lavoro e sulla santità inviolabile di ogni persona e che ” il lavoratore ha diritto al suo salario.” (1 Timoteo 5,18). La Chiesa deve esigere da ogni società, con i mezzi che possiede, di proteggere i propri lavoratori, sia che abbiano i documenti o che ne siano privi, da abusi, umiliazioni, negligenza e sfruttamento cinico. Inoltre, nessuno dovrebbe lavorare senza tregua: la Chiesa insiste sul fatto, che una economia o una impresa giusta deve assicurare non solo la ragionevole produttività e la paga rispettabile dei lavoratori, ma la necessaria opportunità di un riposo sufficiente dal lavoro, per lo svago e per la ristorazione del corpo e dell’anima con le loro famiglie, i loro amici e comunità. La Chiesa deve inoltre chiedere ai governi di approvare leggi, che consentano ai datori di lavoro di fornire posti di lavoro, ma non di trattare il lavoro come semplice merce o un costo aziendale, senza alcun particolare status etico. Ogni economia avanzata dovrebbe, se fosse giusta, fare in modo che le imprese che operano in nazioni che assicurano sistemi giuridici affidabili, istituzioni finanziarie funzionanti e libertà civili fondamentali, debbano essere disposte, come parte del loro patto sociale con quelle nazioni, a rispettare le leggi e le pratiche che forniscono ai lavoratori condizioni umane e salari soddisfacenti, proibendo la complicità in sistemi corrotti di povertà strutturale in altre nazioni. Ciò comporta leggi che garantiscano che, anche nella creazione di strutture in paesi in via di sviluppo, tali imprese debbano essere tenute agli stessi standard di condotta verso il lavoro, che sono validi nei paesi sviluppati; e la capacità delle imprese di produrre, commercializzare e commerciare beni, o in altro modo di partecipare al mercato globale, deve essere resa subordinata a corrette pratiche di lavoro. La Chiesa deve anche chiedere leggi, che non sottopongano i lavoratori senza documenti al terrore della sanzione legale, quando chiedono un risarcimento per gli abusi da parte dei loro datori di lavoro. Allo stesso tempo, la Chiesa dovrebbe incoraggiare le società a investire in modo umano nelle aree depresse del mondo e a cercare di offrire opportunità, dove prima non esistevano; chiede solo che tali imprese siano tenute a norme di condotta, che rispettino la dignità intrinseca di ogni persona umana e investano nelle economie in via di sviluppo, al fine di migliorare le condizioni dei poveri, piuttosto che trarre profitto dalla loro povertà.
§38. La Chiesa Ortodossa, insieme a san Basilio, a san Ambrogio e ad altri Padri, deve insistere sulla responsabilità della società di fornire una rete di sicurezza sociale che protegga veramente i poveri e coloro che si trovano nella penuria assoluta e nel degrado, che sono senzatetto, in miseria e nella disperazione. Tutti sono chiamati al banchetto che Dio prepara, e tutti coloro che parteciperanno al banchetto devono “invitare i poveri, gli storpi, gli zoppi e i ciechi” (Luca 14,3). E questo appello non deve essere solamente una questione di carità privata, ma anche di giustizia pubblica. Ciò significa anche che la Chiesa non può tacere, quando diverse disposizioni legali sono inadeguate in relazione alle esigenze a cui si suppone siano finalizzate o non riescono a garantire una ragionevole parvenza di uguaglianza sociale e civile per i loro beneficiari. La Chiesa deve soprattutto censurare le nazioni che sprecano una parte sproporzionata delle casse pubbliche in imprese, che non fanno altro che favorire o lusingare la loro piattaforma elettorale. Particolarmente eclatanti sono gli esempi di negligenza sociale, nelle nazioni che scelgono di deviare somme pubbliche dal benessere sociale a grandi e inutili programmi di armi, il cui unico vero scopo è quello di rafforzare il “complesso militare-industriale” e di arricchire coloro, il cui business è la produzione incessante di mezzi sempre più sofisticati e devastanti per uccidere, per guerre terrificanti e per terrorizzare le popolazioni civili. Una nazione che non riesce costantemente a fornire anche il livello più basilare di assistenza sanitaria generale ai propri cittadini che vivono in povertà e che tollera, che i più poveri divengano dei senzatetto, ma che allo stesso tempo spende ogni anno una parte sproporzionata delle sue entrate pubbliche per l’espansione militare, è una società implicata in pratiche, contro le quali una coscienza cristiana adeguatamente preparata, deve ribellarsi. E, anche se è impolitico farlo, la Chiesa deve essere disposta a condannare le inosservanze etiche, nell’assegnazione della ricchezza civica, ovunque avvenga.
§39. Va notato inoltre, soprattutto perché vi è un motivo così prominente e persistente negli insegnamenti di Cristo, che non esiste un meccanismo materiale più cruciale per determinare chi sarà ricco e chi povero in qualsiasi società, di quello del debito eccessivo. Nel corso della storia umana, probabilmente, la divisione sociale più significativa è sempre stata quella tra debitori e creditori. Nella Legge di Mosè viene riconosciuta l’indecenza fondamentale dell’utilizzo dell’interesse, per rendere schiavi i bisognosi. Da qui i divieti inflessibili della legge su tutte le pratiche di usura all’interno della comunità dei figli d’Israele (Esodo 22,25; Levitico 25,36-37; Deuteronomio 23,19-20, e da qui l’antica condanna ebraica di interesse fiduciario (Salmo 14,5; Ezechiele 18,17). Da qui proviene anche la estensione della attenzione nella Legge per garantire che, né gli Israeliti né i loro vicini siano ridotti a uno stato di impoverimento assoluto (Esodo 12,49; 22,21-22; Levitico 19,9-10; 23,22; 25,35-38; Deuteronomio 15,1-11). Inoltre, la Legge non proibiva solo gli interessi sui prestiti, ma imponeva che ogni settimo anno, fosse un anno sabbatico, uno shmita, un anno maggiatico, durante il quale i debiti tra Israeliti dovevano essere rimessi; e poi andò ancora oltre nell’imporre il Settimo degli anni Sabbatici, come Anno del Giubileo, in cui tutti i debiti erano condonati. In questo modo, la differenza tra creditori e debitori avrebbe potuta essere, per un certo tempo, cancellata e venir ripristinato una sorta di equo equilibrio. E la denuncia incessante di coloro che sfruttano i poveri o ignorano la loro situazione, è un tema persistente che attraversa i proclami dei profeti di Israele (Isaia 3,13-15; 5,8; 10,1-2; Geremia 5,27-28; Amos 4,1; ecc.). Non è un caso inoltre, che le parabole e i comandamenti di Cristo, così spesso, si riferiscano al peso schiacciante dell’indebitamento, in cui le classi più povere del suo tempo vivevano. Allo stesso modo i Cristiani di oggi non dovrebbero permettere che una lettura eccessivamente spirituale del suo linguaggio, nasconda alla vista le questioni sociali che si pongono davanti. È proprio un tale debito, impietosamente preteso da coloro che sono caduti vittima di interessi troppo esorbitanti da poter far fonte, che Cristo ha indicato come “la disonesta ricchezza” (Luca 16,9) e che sia la tradizione ebraica che quella cristiana condannano come usura. Quando Cristo ha parlato dei tribunali del suo tempo (cfr. Luca 12,58-59), parlava di quello che era prevalentemente un meccanismo giuridico con cui i creditori, con il pretesto di debiti progettati per essere al di là di ogni possibile copertura, potevano spogliare i propri debitori di tutti i loro beni materiali. E sono proprio questi creditori che la Lettera di Giacomo denuncia (Giacomo 2,6), e sono quasi certamente solo quei debiti, per i quali la Preghiera del Signore, nel suo testo originale, chiede aiuto, e proprio quelle prove in cui chiede a Dio di non indurrci, e solo da un tale creditore (“l’uomo malvagio”), da cui implora il salvataggio (Matteo 6,9-13). Ad oggi, tuttavia, non esiste quasi alcun settore di politica pubblica, anche nei paesi più sviluppati, in cui gli abusi del credito e del debito siano controllati da una regolamentazione razionale e umana. I poveri, della maggior parte delle società, sono vittime di istituti di credito senza principi e di norma, godono di poca protezione da parte dei creditori, che hanno sfruttato le loro necessità, allo scopo di metterli in una condizione di debito perpetuo. Se la Chiesa desidera veramente incoraggiare pratiche sociali che riflettano l’amore, la misericordia e la giustizia di Dio, rivelate in Cristo, deve certamente essere disposta a protestare contro le leggi, che non proteggono i gruppi vulnerabili da creditori senza scrupoli e rapaci, e che non forniscono alternative pubbliche di tipo filantropico, davanti a creditori privati incontrollati o inadeguatamente regolamentati, per coloro che hanno bisogno di alleviare le proprie privazioni e soddisfare le proprie necessità. Inoltre, la Chiesa deve ricordare che i meccanismi dell’indebitamento funzionano per impoverire le nazioni, tanto quanto gli individui, e che una crudele inflessibilità da parte dei paesi creditori nei confronti dei paesi debitori, è spesso causa di immensa miseria umana, vanificando ogni speranza di sviluppo economico e di progresso sociale tra i popoli più svantaggiati. Cristo ha insegnato ai suoi discepoli a perdonare i loro debitori, e la Chiesa di Cristo non può fare altro che sostenere instancabilmente il condono del debito internazionale da parte delle nazioni più ricche.
§40. La Chiesa ha una vocazione speciale per ricordare che, ad eccezione della fame incessante, non esiste una privazione più crudele sopportata dai poveri in tutto il mondo, della mancanza di accesso a cure mediche dignitose. Cristo, ancora una volta, non ha portato la sua buona novella solo agli indigenti, ma agli zoppi, ai ciechi, ai disabili, agli ammalati e ai sofferenti. Il suo ministero fu segnato da radiosi miracoli come la testimonianza dell’amore divino e la filantropia, che ha offerto liberamente a tutti coloro che cercavano sollievo dalle loro afflizioni fisiche e spirituali. Cristo ha annoverato infatti la visita dei malati tra i criteri necessari per la salvezza (Matteo 25,31-46). Una Chiesa, che si sforza di proclamare lo stesso amore a tutte le nazioni e di esigere da ogni comunità la giustizia che Dio richiede a tutti gli esseri umani, deve insistere affinché ogni governo cerchi, con qualsiasi possibilità e risorsa abbia a sua disposizione, di fornire a tutti i suoi cittadini, un’assistenza sanitaria generale, di qualità, quanto più elevata possibile. Coloro che non sono in grado di procurare tale assistenza da se stessi, devono avere la possibilità di accedervi, grazie alla funzione pubblica e a spese pubbliche, e questa assistenza non dovrebbe lasciare i bisognosi alla mercé delle agenzie di assicurazione, che esigono premi enormi fornendo scarsi benefici; inoltre i poveri non devono diventare ancora più poveri, in cambio del privilegio di vivere e beneficiarne al pari dei propri concittadini, e tutto questo è il minimo assoluto che la Chiesa dovrebbe aspettarsi dai paesi con economie sviluppate. Questi obblighi non possono neppure finire alle frontiere nazionali. Le nazioni più ricche sono moralmente obbligate, per quanto possono e da un punto di vista Cristiano, a cercare di migliorare le condizioni mediche per gli esseri umani, ovunque si trovino. Spesso, questo significa cercare di fornire prodotti farmaceutici a prezzi accessibili a paesi, i cui cittadini non possono sostenere i costi dei trattamenti medici più efficaci e moderni in caso di gravi disturbi. Spesso questo comporterà una diretta assistenza di medici e altri professionisti di medicina. Qualunque cosa questo comporti, tuttavia la Chiesa Ortodossa è tenuta a chiedere e a partecipare allo sforzo incessante per portare assistenza a tutti i popoli in nome di Cristo, medico delle anime e dei corpi.
§41. In qualsiasi nazione, i poveri sono quasi sempre i primi a soffrire, a causa di eventuali condizioni avverse generali, naturali o sociali, economiche o politiche. E, in molti luoghi, la povertà è tanto il risultato di discriminazioni razziali o di classe, quanto di mera sventura personale. L’attuale crisi ambientale, ad esempio – cambiamenti climatici antropogenici, inquinamento tossico delle risorse idriche e dei suoli in tutto il mondo, danni onnipresenti all’intero ecosistema da parte di microplastiche e altri contaminanti, deforestazione, erosione del suolo, rapido declino della diversità biologica, e così via – è una catastrofe incalcolabile per l’intero pianeta e per tutta la vita sulla terra. Quasi sempre, tuttavia, l’onere più grande e immediato ricade sui luoghi della terra, economicamente meno sviluppati, dove i governi possono fare, o scelgono di fare, molto poco per proteggere gli indigenti dalle conseguenze dei rifiuti industriali e della devastazione ecologica generale. Sono i poveri, inoltre, che sono più regolarmente sfollati e ulteriormente impoveriti dalla distruzione dell’ambiente che li circonda. Anche nelle nazioni più sviluppate, i cittadini più poveri tendono ad essere quelli più regolarmente esposti ai terribili risultati del degrado ambientale e non hanno le risorse per porre rimedio alla loro situazione. Finché sussistono immense discrepanze di ricchezza tra le nazioni e tra gli individui, il potere sociale e politico resterà in mano principalmente ai ricchi, così come qualsiasi grado di relativa immunità dalle conseguenze della follia umana e della corruzione o di calamità naturale, potrà essere raggiunta con mezzi materiali. Lo stesso vale per i migliori percorsi di istruzione o di avanzamento professionale, le migliori cure sanitarie, le migliori tutele legali, le migliori opportunità finanziarie, il miglior accesso alle istituzioni di potere politico, e così via. La grande disuguaglianza economica è, inevitabilmente, l’ingiustizia sociale; secondo gli insegnamenti di Cristo è, inoltre, una cosa abominevole agli occhi di Dio. Intere scuole di economia sono sorte nel ventesimo secolo al servizio di questa diseguaglianza, sostenendo che si tratta di una necessaria concomitanza con qualsiasi economia funzionante. Senza indugio, tuttavia, le argomentazioni impiegate da queste scuole sono, nel migliore dei casi tautologiche, e costituiscono la prova di quanto l’immaginazione etica umana impoverita possa farsi schiava dell’ideologia. La Chiesa deve invece confidare sulle rassicurazioni di Cristo che, per coloro che cercano il Regno di Dio e la sua giustizia, Dio provvederà a tutto. La Chiesa deve sempre, come erede della missione dei profeti e del Vangelo del Dio incarnato, essere, in primo luogo, una voce per i poveri e una voce che si innalza, quando necessario, contro i ricchi e i potenti e contro i governi che trascurano o sfruttano i deboli, per servire gli interessi di pochi. La Chiesa deve, in ogni generazione e ricordando l’esempio della Chiesa dell’età apostolica, chiedere a ogni società, se non ci possano essere mezzi efficaci e forse nuovi modelli economici, attraverso i quali ottenere una distribuzione più giusta della ricchezza, e quindi un impegno più radicale per il bene comune della società e del pianeta, che dobbiamo condividere tutti. Per Santa Maria Skobstova, questo è un mandato rivolto a tutti coloro che cercano di elevarsi dalla terra al cielo e gioire con gli angeli quando un bicchiere d’acqua viene offerto a un singolo individuo nel nome del Signore: “Una persona dovrebbe avere un atteggiamento più attento alla carne del suo fratello che alla propria. L’amore Cristiano ci insegna a dare al nostro fratello, non solo beni materiali, ma anche doni spirituali. Dobbiamo offrirgli la nostra ultima camicia e la nostra ultima crosta di pane. Qui la carità personale è così necessaria e ha tanto valore, quanto la più ampia opera sociale. In questo senso, non c’è dubbio che il Cristiano è chiamato al lavoro sociale. È chiamato ad organizzare una vita migliore per i lavoratori, a provvedere agli anziani, a costruire ospedali, a prendersi cura dei bambini, a lottare contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, la povertà, l’illegalità”.[37]
[26] Basilio Un’omelia su “Abbatterò i miei fienili”. Inizia a PG 31.261A.
[27] Basilio Pollici Esaemerone 7.3. PG 29.152C.
[28] Basilio Omelia in Tempi di carestia e siccità 7. PG 31.321CD.
[29] Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 5.5. PG 57.60-61
[30] Giovanni Crisostomo, Su Lazzaro e i Ricchi 2.4. PG 48.987-988.
[31] Giovanni Crisostomo, Omelia al Popolo di Antiochia 2.6. PG 49.43.
[32] Giovanni Crisostomo, Sulle parole dell’apostolo: “Avere lo stesso spirito.” PG 51.299.
[33] Giovanni Crisostomo, Omelie su 1 Corinzi 10.3. PG 61.85. E Omelie su 1 Timoteo 11.2. PG 62,555B.
[34] Ambrogio Esaemerone 6. Inizia a PL 14.257A. E Esposizione del Vangelo di Luca, Libro 7. Inizia a PL 15.1699A.
[35] Basilio Omelie sui Salmi 14.1.6. PG 29.263B.
[36] Ambrogio Su Naboth l’israelita 3.11–15. DELLA SI.14.769B.
[37] Maria Skobtsova, “Il secondo comandamento evangelico”, Madre Maria Skobtsova: Scritti fondamentali, 54.
Il testo completo di Per la vita del mondo. Verso un ethos sociale della Chiesa ortodossa è disponibile su Goarch.org, Greek Orthodox Archdiocese of America.