
Proponiamo l’intervista sul dialogo interreligioso a Luifi Berzaro a cura di Tudor Petcu. Luigi Berzano, sociologo, prete, accademico, è nato ad Asti nel 1939. Già ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la Facoltà di Scienze politiche all’Università degli Studi di Torino, è parroco di Valleandona, frazione di Asti. E’ coordinatore nazionale della sezione “Sociologia della religione” della Associazione Italiana di Sociologia. Collabora anche con la Facoltà Teologica, l’Università Rebaudengo e il Center for Studies on New Religions. Dal 2005 è membro del Comitato scientifico della rivista Studi di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano e dal 1992 presidente del Centro Studio Nuove Religioni di Torino. Coeditore di Annual Review of the Sociology of Religion (Brill, Leiden-Boston), dal 2010 dirige l’Osservatorio sul Pluralismo Religioso a Torino, che ha censito circa 150 gruppi e realtà religiose nella metropoli torinese. I suoi studi vertono su pluralismo e libertà religiosa nelle società multiculturali, in particolare nei confronti delle esperienze della religiosità individuali e di gruppo, sia nelle forme organizzate nelle religioni storiche, sia nelle forme più marginali delle minoranze e nuovi movimenti spirituali come la New Age. In Sociologia dei lifestyles ha sviluppato una ricerca sugli stili di vita e nelle pratiche collettive condivise come modello di analisi della stratificazione sociale.
Le chiedo innanzitutto di parlare un po’ di Lei e della sua attività nel dialogo interrreligioso in modo che i nostri lettori possano scoprire davvero la sua personalità.
Come per tutti, anche per me, i temi e i problemi che trattati sono sempre stati intrecciati con la mia attività professionale e con la condizione di vita privata. Anche il tema del dialogo ha fatto parte del mio quarantennale insegnamento di sociologia in varie università e con la mia vita privata di parroco in una piccola comunità parrocchiale in diocesi di Asti. Soprattutto negli anni in cui ho avuto il corso di Sociologia delle religioni all’Università di Torino il dialogo interreligioso è stato un particolare tema di studio e di ricerca, oltre che esperienza vissuta in molteplici esperienze con centinaia di Chiese, movimenti religiosi, gruppi e fondatori di esperienze spirituali.
In tale contesto sono stato impegnato in ricerche in alcuni campi, tra i quali quello dei “cristiani d’Oriente” in Piemonte. Le pubblicazioni che ne conseguirono si proponevano di offrire contributi per una migliore conoscenza dell’Ortodossia in Occidente, a partire dalle sue forme e manifestazioni presenti in parrocchie ortodosse, monasteri, gruppi etnici, ricordi storici, elementi artistici, esperienze di dialogo interreligioso. La presenza ortodossa in Piemonte è attualmente ridotta; ma le trasformazioni che stanno interessando tutta l’Europa in conseguenza dei processi migratori dall’Est all’Ovest non fanno che accrescere anche la sua presenza. Una delle pubblicazioni editata da Harmattan nel 1996 vide la collaborazione degli studenti del mio corso di Sociologia delle religioni della Facoltà di Scienze Politiche e appartenenti del mondo ortodosso torinese.
Un secondo campo di ricerche diede avvio nel 1998 all’Osservatorio sul Pluralismo religioso, nato all’interno dell’Università di Torino e arricchito dagli apporti di studenti, laureandi e ricercatori volontari. Negli ultimi anni l’Osservatorio vide la presenza del professore Massimo Giusio quale ispiratore di nuove iniziative ed eventi pubblici rilevanti. Durante tutti questi anni è stato costante la collaborazione con il professore Massimo Introvigne in numerose ricerche, pubblicazioni e interventi pubblici. Quasi agli inizi dello storico centro di ricerche del CESNUR è stato lo stesso Introvigne a propormi la presidenza del CESNUR, ormai diventato (come il suo fondatore Introvigne) una delle più riconosciute istituzioni di studio sui nuovi movimenti religiosi a livello internazionale.
Tutte queste ricerche e attività hanno richiesto per prima cosa il rifiuto di assolutizzare le credenze personali, senza per questo negare l’intenzione di assolutizzare i dubbi. Fede e dubbio non sono incompatibili, come l’acqua e il fuoco che fanno ambedue parte della vita. In secondo luogo il dialogo ha richiesto di accettare l’alterità dell’altro, non solo quale another (uno dei tanti, un caso all’interno di una serie) ma quale an other, «un altro», qualcuno che è diverso, unico. Del resto nell’attuale contesto di pluralismo anche religioso non possiamo pretendere di conoscere la nostra stessa religione, se non ne conosciamo un’altra. Quindi oggi per essere religiosi bisogna essere interreligiosi. In terzo luogo è importante condividere l’idea che l’essenza del dialogo è l’incontro tra persone. Solo così nasce, a volte, anche la stima e l’amicizia tra i partecipanti al dialogo. Nel dialogo ci si confronta, si ascolta, si vive un’esperienza comune, si lavora insieme senza aspettarsi alcun profitto personale. Si compie una full immersion in un’altra religione e lo si fa a lungo per evitare che questa immersione si riduca a una forma di turismo spirituale o di semplice “inculturazione”.
A mio parere non è così tanto facile parlare del dialogo interreligioso, anche perché la coesistenza delle religioni comporta prospettive diverse sul mondo, su Dio e soprattutto sulla redenzione. Perciò, la mia domanda sarebbe la seguente: come si dovrebbe intendere sotto l’aspetto etico il dialogo interreligioso?
La sua domanda evoca per me l’idea del dialogo come stile di vita, nella visione di Raimon Panikkar, il quale parlando della sua esperienza personale (“Sono ‘partito’ cristiano, mi sono ‘scoperto’ indù e ‘ritorno’ buddista senza aver mai cessato di essere cristiano”) considerava il dialogo quale l’unica forma per gli individui religiosi di non cadere in una rigida e sterile visione monoculturale anche della religione nella quale la fede è ridotta allo stesso piano della credenza, pur avendo sempre bisogno di una credenza per essere fede. Una fede senza credo è disincarnata, le credenze senza fede si impoveriscono in superstizione.
In tale prospettiva è utile distinguere due forme di dialogo: dialogo interreligioso quale confronto intellettuale tra appartenenti a religioni diverse e dialogo intrareligioso, quale esperienza di crescita e di arricchimento personale. Sono le due forme di dialogo che non impongono mai di sospendere la propria fede. Nell’incontro con l’altro ognuno non può sospendere la propria fede, come se non credessi in quel che crede, perché è proprio la fede personale a sostenere nel dialogo stesso. È nel dialogo religioso sincero che si può incontrare l’altro allo stesso livello, che è quello della fede e non quello della conoscenza. È questo atteggiamento che trasforma il dialogo interreligioso in dialogo intrareligioso, cioè in un incontro con le interiorità religiose dei dialoganti. Le religioni crescono tramite l’incontro con l’altro. Il dialogo è sia l’elemento generativo di tale arricchimento e dell’infinita potenzialità umana di esplorare il divino e di rappresentarlo, sia anche della finitezza di ogni espressione del divino costruita dall’uomo. Anche i luoghi, i tempi, le preghiere e le formule religiose appena formulate manifestano i loro limiti e relatività. Tutte le tradizioni religiose che si sono formate in tempi e luoghi diversi attraverso segni, forme, linguaggi, teologie, hanno conosciuto volenti-nolenti i limiti delle loro rappresentazioni. È in tutto ciò che consiste la riflessione che le religioni devono approfondire, riconoscendo la finitudine di tutte le loro forme e i limiti delle loro espressioni del divino. Anche le espressioni spirituali più personali – quale la preghiera più intima e solitaria – si forma adottando modelli ed elementi propri di una determinata situazione relativa e finita. a e aperta al dialogo
Oggi, in contesto di immigrazione, la convivenza interreligiosa se correttamente intesa, oltre a incentivare il superamento di chiusure e barriere tra abitanti locali e cittadini di origine immigrata, può favorire l’affermarsi di un atteggiamento più aperto in tutti. Poiché le differenze religiose saranno sempre più parte della convivenza é necessario accompagnare con responsabilità i processi di incontro e dialogo tra i fedeli di religioni diverse, e tra questi e i non credenti. Questo approccio, di tipo innovativo, costituisce il presupposto di ogni pratica del dialogo. Si tratta dell’impostazione più consona al modello di una società laica, quale si è consolidata in Occidente, anche se in modo non sempre pacifico. Oggi la laicità è un valore acquisito, distinto dal laicismo e inteso non come opposto all’ottica religiosa, ma come una base per il riconoscimento reciproco e paritario, che consenta di rispettare la coscienza individuale come bene fondamentale e di porre lo Stato a servizio e salvaguardia del pluralismo.
Dato il fatto del mio riferimento al significato etico del dialogo interreligioso, prenderei in considerazione anche l’aspetto morale che sia in un certo senso il legame tra tutte le religioni. Inoltre, Mircea Eliade diceva che la morale in se stessa fosse di fatto lo scopo di tutte le religioni. Se così è, dovrebbero le religioni essere consapevoli di questa realtà concettuale per poter sviluppare un vero dialogo?
«Voi, con gli altri comportatevi come vorreste che anche gli altri si comportassero con voi. E poi, se amate solo quelli che vi amano, che fate di straordinario! Lo fanno anche gli uomini cattivi (. . .). Voi, amate anche i vostri nemici (. . .) e così sarete come il Dio Altissimo». Le parole di Gesù nel Vangelo di Luca (6,31 ss) e in quello di Matteo (7,12 ss) sono state chiamate in tutte le religioni la regola aurea, tanto sono parole nobili e belle. In alcune religioni l’invito, in forma positiva, è di fare agli altri tutto il bene che si vorrebbe che gli altri facessero a noi (Vangelo di Gesù, parole di Maometto, Sikhismo, Jainismo, Taoismo, Baha’i). In altre religioni l’invito, in forma negativa, è di non procurare agli altri il male e il dolore che non si vorrebbe fosse procurato a noi (sermone di Buddha, epica indù del Mahabharata, Parole di Confucio, Hillel ebraico, messaggio Hindu, Confucianesimo). Nel Vangelo la regola aurea si ritrova come una vera trinità unita nell’amore: Dio-Io-Tu. É l’amore che costruisce l’identità, la anima e fa circolare in essa la vita. Amare, direbbe Gesù, è essere dentro ciò che si ama.
La regola aurea, con il suo fondamento di reciprocità comune al diritto internazionale, è la via maestra per il dialogo e l’armonia tra i popoli. Oggi si direbbe che è il simbolo dell’empatia: “mettersi nei panni dell’altro”, “essere coinvolti nei confronti degli altri”. Ma, a volte, la regola aurea può generare anche atteggiamenti rassegnati e passivi non degni della vita, quali quelli di chi accetta aggressioni senza reagire in nessuna forma. Donne e bambini oggetti di violenza hanno rappresentato in alcuni contesti la figura della vittima, oggetto, oltre che di violenza altrui, anche di odio per sè stessa. Anche l’affermazione che Dio è buono con l’ingrato e il malvagio, è, in una interpretazione ristretta, fonte di equivoci.
Tra indulgenza e sottomissione, reazione e complicità, perdono del reato e incoraggiamento del crimine, la porta è stretta. Se offriamo prestiti a coloro che non restituiscono e se cancelliamo i debiti agli Stati poveri, i leaders politici corrotti potrebbero essere i soli ad avvantaggiarsene. Una lettura letterale di questi versetti evangelici potrebbe avere effetti negativi incoraggiando il sadismo di alcuni e alimentando il masochismo degli altri.
Come affermare la bellezza dell’essere buoni con il malvagio e del perdonare non “sette volte” (come diceva Pietro), ma “settanta volte sette” (come diceva Gesù)? Il perdono è la parola più profonda del messaggio evangelico. Ci ricorda che a noi tutti è stato perdonato molto e sempre. Il perdono nasce dall’esperienza che, se noi siamo qui, è grazie al molto perdono che abbiamo ricevuto e che riceviamo dalla vita, dagli altri, da Dio.
Nel buddismo – la profonda esperienza religiosa che da oltre due millenni sostiene nella vita molti popoli orientali – troviamo un’altra parola importante, il vuoto. La affiancherei a quella del perdono cristiano. La spiritualità buddista è una spiritualità del vuoto, che conduce a vivere interamente il momento presente e ogni attimo stesso in cui lo si vive, senza lasciare strascico. La spiritualità del vuoto è la base della dedizione concreta della vita. Senza il vuoto, non si può vivere fino in fondo il presente.
Il perdono di Gesù è il vuoto che guida a vivere la vita offrendo ogni momento mentre lo si vive con consapevolezza. Perdonare non è solo un atto generoso della volontà, ma è il buttare tutto nel vuoto. Se non ci fosse il vuoto non ci sarebbe liberazione possibile e la vita sarebbe un groviglio di anelli pesanti e ingarbugliati. È il vuoto che compone una catena nella quale la vita si annulla e si genera istante per istante. È il messaggio evangelico a indicarci il perdono come via di liberazione. Senza di esso dovunque sarebbe il trionfo dell’inferno. Grazie al perdono una piuma di bene oggi può pesare di più di una tonnellata di male compiuto ieri. E ciò è possibile perché è il vuoto a cancellare ogni traccia.
Quali possibilità di sviluppo ci sono nel futuro per il dialogo tra Giudaismo, Cristianesimo, Islam e Oriente? Come dovremmo noi da cristiani percepire la nostra eredità giudaica ma anche e quali sarebbero i rapporti corretti con l’Islam di cui noi avremmo bisogno?
Si potrebbe dire che l’ideale del dialogo tra le religioni è quello indicato da Raimon Panikkar, quando diceva di essere al cento per cento cristiano e al cento per cento hindu, al cento per cento orientale e al cento per cento occidentale. Perché allora, in maniera analoga, non potrebbe esserci un pensiero al cento per cento giudaico, cristiano, musulmano? È paradossale? In un certo senso sì; e tuttavia tale paradosso può anche essere compreso in maniera perfettamente razionale. Intanto, non c’è nulla di strano nel dire che un individuo è tutto figlio e nello stesso tempo tutto padre, oppure tutto vivente e tutto uomo. È infatti solo all’interno di categorie escludenti e negative che l’essere in un certo modo esclude l’essere in un altro modo; per esempio l’essere maschio esclude l’essere femmina, l’essere malato esclude l’essere sano, e così via.
Tutto ciò richiederebbe da parte del Giudaismo, del Cristianesimo e dell’Islam una grande dote di «inter-in-dipendenza», per usare un efficace neologismo di Panikkar. Infatti, «inter-in-dipendenza» può ben significare il nesso inallentabile di ogni entità con ogni altra entità per il quale da un lato (inter-dipendenza) ogni cosa è quella che è solo in forza del suo legame con ogni altra cosa, ma nello stesso tempo, dall’altro lato (in-dipendenza), anche in questa dipendenza relazione ogni cosa resta saldamente ciò che è, e non un’altra cosa. Insomma, il relativismo radicale connesso alla circostanza che ogni cosa si dà solo nella sua relazione con l’insieme di tutte le altre cose è l’altra faccia dell’assolutezza che caratterizza l’identità di ogni cosa.
Sono però gli interessi storici politici ed economici a rendere difficile tale mutua fecondazione. Di diversa natura è invece il rapporto tra Occidente e Oriente, per la diversa dominanza della tecnica. La storia dell’Occidente inizia dal pensiero greco e arriva alla inevitabile dominazione planetaria della civiltà della tecnica. Che cosa porta alla luce il pensiero greco? Porta alla luce la fede nella forma estrema del “divenir altro”: il mondo è “un divenire altro”. L’uomo vuol diventare altro cibandosi delle forze supreme della realtà. Eritis sicut dii, dice il serpente: «sarete come dèi», se mangerete il frutto che vi è stato proibito. Quel frutto è il divino, perché mangiandolo ci si porta all’altezza di Dio. Quel frutto è Dio. Questa fede domina, indiscussa, la storia dell’uomo, quindi l’intera storia dell’Oriente e dell’Occidente. Il sottosuolo della modernità avanzata è la fede nell’esistenza del divenire altro. Per i pensatori più critici della dominanza della tecnica questa fede è la follia estrema.
Crede che il Concilio Vaticano II abbia rappresentato per la Chiesa Cattolica il momento principale che ha contribuito all’apertura dialogica verso le altre religioni?
É significativo ricordare che il Concilio Vaticano II nel documento Dignitatis Humanae (1965) ha riconosciuto il valore delle altre religioni, che vanno pertanto rispettate e tenute nell’adeguata considerazione. Il superamento dell’identificazione tra Stato e religione, tra leggi e prescrizioni religiose, ha favorito di per sé l’emersione di un quadro condiviso di diritti e di doveri, di mutuo riconoscimento e reciproco rispetto, oggi rappresentato dalle molte forme del “pluralismo religioso. A questo riguardo si può citare l’iniziativa profetica dell’incontro interreligioso di Assisi, dovuta a Giovanni Paolo II e condivisa con i leader delle diverse religioni. Questa iniziativa, avviata nel 1986, nel 2012 ha coinvolto anche personalità atee, diventando così un incontro a più ampio raggio tra tutte le “persone di buona volontà”, portatrici di valori di dialogo e convivenza pacifica. Riflettendo su questa e altre esperienze, profondamente motivate e positive, non si può che augurare una maggiore enfasi nella promozione del dialogo; un impegno condiviso da molti, ma non ancora diventato pratica di tutti, né in Italia né a livello mondiale.
In questa visione il dialogo è sempre personale, sincero, veritiero. Non è soltanto un gioco dialettico, ma un’intesa reciproca, un essere-l’uno-con-l’altro. In tal senso la «pace tra le religioni», per usare il titolo dell’opera più nota di Nicola Cusano [De pace fidei], non può consistere in una religione universale. È l’esigenza di imparare a comprendere la lingua del proprio vicino nel senso più profondo: io confido negli altri, cosicché anch’essi, a loro volta, entrino in dialogo con i loro rispettivi vicini; un autentico colloquio umano, che resista e produca resistenza alla tentazione dell’odierna tecnicizzazione del mondo. Il dato più significativo per la pratica del dialogo tra le religioni apportato dal Concilio Vaticano II mi pare sia la conclusione di tutte le religioni che non ha più senso parlare di Dio intendendolo come EGLI o come ESSO. Soltanto un Dio che sia un TU e stia di fronte alla creatura come TU – cioè un Dio accettato come interlocutore – può essere alla base di una teologia in senso originario. Solo questa prospettiva, dentro la quale è annidato il mistero inesprimibile del divino, è possibile vivere il dialogo tra le religioni e condurre in unità la diversità delle culture.
Quanto importante è il dialogo interreligioso nel mondo di oggi in cui al livello ideologico si parla della tolleranza e della buona comprensione tra tutti, nonostante i conflitti che stanno caratterizzando le relazioni tra popoli e culture?
La tolleranza e la libertà di tutti di credere a quanto ritengono necessario per loro fa parte della modernità. Oltre cento anni fa (1897), il filosofo di Harvard William James, di fronte ai club filosofici delle università di Yale, ha tenuto una conferenza divenuta celebre, nella quale, al cospetto dell’assemblea dei suoi colleghi, difendeva il diritto fondamentale di credere. Nel suo argomento non era in gioco quella libertà di fede della quale si parla nelle costituzioni dei moderni Stati nazionali. James voleva fornire un fondamento per il diritto degli individui contemporanei di compiere il salto verso un atteggiamento di fede assunto volontariamente e scelto in base al proprio orientamento pratico-morale di vita. James coniava espressioni stimolanti come “our right to adopt a believing attitude in religious matter” e “lawfulness of voluntarily adopted faith“. In un paper successivo riassumeva le sue riflessioni sulla “volontà di credere” in una tesi fondamentale: “La fede resta un inalienabile diritto di nascita del nostro spirito”.
Per il filosofo James a fine Ottocento era centrale individuare una risposta liberale all’intellettualismo dominante il quale aveva dichiarato immorali tutte le professioni di fede sulla base della loro insufficiente evidenza. James obiettava che tutti gli esseri umani sono più o meno “assolutisti istintivi” e che anche gli empiristi più rigidi in materia di teoria, quando si tratta di questioni di pratica, seguono i propri dogmi personali come “papi infallibili”: “They dogmatize like infallible popes“. Era un’affermazione che illustrava come un protestante americano facesse uso in modo creativo dello scandaloso dogma dell’infallibilità venticinque anni dopo il Concilio Vaticano I (1869-1870).
James è stato il primo a riconoscere che nel Moderno non solo il papa, ma anche ciascun essere umano, che tenga un po’ a sé, è “condannato” a una sorta d’infallibilità. Come James sottolinea, l’assolutismo istintivo si accompagna a una mancanza di evidenza logica. Dato che gli esseri umani, nelle questioni di vita e di fede, non possono attendere che l’orologio dell’evidenza al nostro interno abbia battuto dodici colpi, hanno il diritto, e forse addirittura il dovere, di superare lo iato tra ciò che è dubbio e ciò che è certo con un salto verso gli assunti più attendibili oppure, come dice James, verso le ipotesi più vitali, e di costruire su di esso la felicità della propria vita.